Sottile è il welfare…: note a margine delle biblioteche di pubblica lettura

di Luca Dal Pozzolo

Ciò che manca, ciò che vale

La mancanza rende più acuta, lucida e pungente la percezione di ciò che si è perso e, d’altro canto, la pandemia ha aperto una faglia nel quotidiano fatta di rinunce, di solitudini, di cesure rispetto alle abitudini precedenti, sicché ciò che succedeva soltanto fino al gennaio del 2020 sembra dolorosamente confinato su di un’altra sponda, verso la quale mancano collegamenti efficaci, salvo sporadiche e instabili passarelle.
Non parlo dell’enormità irrimediabile delle perdite umane, con proporzioni proprie di un dramma epocale: l’avremmo ritenuto insopportabile se solo l’eccezionalità della situazione non agisse con violenza non soltanto verso una più dolorosa lucidità, ma anche in direzione opposta, verso un ottundimento dei sensi frastornati dai gorghi del quotidiano, fino ai casi estremi della rimozione del problema o della sua negazione.
Anche senza sollevare la drammatica contabilità dei decessi, molti segnali ormai indicano come processi e impatti di lungo periodo stiano accumulando inerzie sempre più preoccupanti che comporteranno in un’ipotesi ottimistica lunghi periodi di recupero per smaltirne gli effetti. Non solo le perdite fortissime dell’economia e le ricadute dirette sulla vita delle persone, ma anche aspetti più sottili e subdoli ma non meno laceranti e potenti, come l’aumento del tasso di tentati suicidi tra gli adolescenti o il grido d’allarme dei pediatri per i primi mille giorni di vita dei neonati, in condizioni di socialità mutilata e di forti tensioni familiari. Una problematica che sarà tutta da affrontare, visto che proprio nei primi tre anni si plasmano nel tessuto cognitivo, inclinazioni, propensioni, blocchi e difficoltà che struttureranno il resto del cammino. Nati per leggere, non a caso, agiva a partire di lì, nel proposito di rilasciare lungo il corso del tempo gli effetti benefici di una stimolazione cognitiva preziosa per il futuro.
In questa potentissima dinamica, la severa compressione della socialità ha travolto le pratiche e le istituzioni culturali, dalla chiusura dei musei, ai cinema, ai teatri, alle biblioteche e agli archivi, sottraendo un sostegno importante alle condizioni di welfare diffuso, contribuendo a inasprire le situazioni di isolamento prodotte dalla sospensione della didattica in presenza nelle scuole, dalla riduzione della mobilità e dal dilagare dello smart working, ovunque possibile. Ma ciò che maggiormente conta rilevare è che non ha più corso il pensiero di una sospensione temporanea, di un sacrificio da sopportare per un periodo definito e che, al contrario, occorra tenere in conto una dinamica di lungo periodo, dove si protrarranno in maniera più o meno severa i divieti e le limitazioni alla presenza e alla socialità, in funzione dei picchi di contagio e di diffusione del virus e delle sue varianti. Una situazione di grandissima incertezza e di difficoltà di programmazione, dove anche il timore dei cittadini nella ripresa delle frequenze ai luoghi della cultura giocherà un ruolo probabilmente altrettanto importante e contradditorio rispetto alle esplosioni di vitalità insofferente a vincoli e precauzioni nei luoghi della movida notturna.
Se questo è il quadro che non possiamo ignorare, allora diventa fondamentale capire quali siano le mancanze, ciò che stiamo perdendo e il valore incorporato, poiché saremo chiamati a separare il grano dalla crusca, ad abbandonare zavorre e cascami che appesantivano il nostro incedere e a interrogarci, invece, su come salvare o re-inventare ciò che ci è indispensabile, ciò che ci è utile per ridisegnare un futuro che non potrà ricalcare la progressione lineare delle tendenze del passato.
Occorre disporre di una nuova capacità di comprensione dei fenomeni e dei loro effetti, una sorta di analitica di precisione sulle trasformazioni in atto per poter rimettere insieme condizioni, offerte e servizi, capaci di alleviare o di risolvere le mancanze che deprivano oggi il nostro quotidiano.

Se pensiamo al ruolo delle biblioteche, le chiusure forzate e il lavoro fortemente condizionato dai vincoli di presenza hanno comportato disagi sensibili e fortissime riduzioni dei servizi, ma non in maniera omogenea o con la stessa intensità. Sebbene subiscano una contrazione forte tutte le attività di promozione della lettura, non è immediato un impatto negativo sui tassi di lettura: aumentano le attività online e digitali delle biblioteche e alcuni segnali indicano una maggior attività di lettura nella popolazione italiana durante il periodo pandemico, seppure sia presumibile si tratti di un’attività di maggior intensità dei lettori abituali, più che di un allargamento della base verso fasce di non lettori.
Sebbene il fenomeno della lettura, quanto alla media nazionale di libri letti e sul breve periodo, possa non essere direttamente in relazione con gli effetti negativi della pandemia, o addirittura correlato inversamente, l’interruzione o l’affievolirsi delle attività di promozione della lettura in un paese caratterizzato da una modesta presenza di lettori abituali emerge come una privazione di grande importanza, che richiede una risposta energica e strategica da mettere in campo in tempi brevi1. Una nuova generazione di programmi di avvicinamento alla lettura disegnati nell’incertezza della fase pandemica costituisce un’esigenza immediata, se non si vuole – anche qui – accumulare inerzie sempre più difficili da superare con il trascorrere del tempo.
Passando a un altro capitolo di privazioni, sono emersi chiaramente i disagi per coloro che utilizzano biblioteche e archivi per esigenze professionali, storici, studiosi, studenti. Prima o poi qualcuno farà una stima delle tesi di laurea e di dottorato rimandate per inaccessibilità delle fonti, dell’uscita di libri posticipati per le stesse ragioni ecc.
Per quanto una politica di incremento della digitalizzazione delle fonti possa parzialmente venire incontro ad alcune criticità, è sicuro, tuttavia, che permarrà per lungo tempo, se non per sempre, da parte di studiosi e professionisti l’esigenza di una consultazione diretta, in situ, in moltissime fattispecie. Qui la scommessa sta nel perimetrare così efficacemente l’ambito dei documenti da consultare in presenza, da consentire un accesso non particolarmente contingentato agli studiosi che ne richiedono la consultazione, in termini compatibili con le norme presenti e future di contenimento del contagio. Ogni biblioteca rappresenta ovviamente un caso a sé, con difficoltà e problematiche del tutto singolari, non sempre superabili facilmente, ma non è impensabile in molti casi una strategia che consenta flussi regolati di non grandi dimensioni, anche in periodi di semi-lockdown.

Sebbene si tratti di disagi tutt’altro che trascurabili, vorrei, tuttavia, concentrare l’attenzione su alcuni aspetti di welfare – in modo esemplificativo e tutt’altro che esaustivo – che la pandemia ha messo in crisi e il cui impatto, per quanto poco evidente, rischia di essere assai incisivo.
Sono convinto che il ruolo profondo di struttura di welfare sociale emerga, non solo dalle attività espressamente dedicate da parte delle biblioteche, come i corsi di alfabetizzazione informatica, i corsi di lingua per i nuovi cittadini, la formazione, le varie iniziative di aggregazione della popolazione locale – tutte funzioni minacciate o sospese a causa della pandemia, e altrettanto essenziali nell’attività della biblioteca verso la propria società locale di riferimento. L’emergenza di profondi effetti di welfare emerge con altrettanta evidenza in alcuni comportamenti degli utenti, nelle abitudini e nelle forzature d’uso che specifici gruppi di utenza manifestano e che, peraltro, in tempo di privazione pandemica, mostrano appieno il loro portato.

Il suono del silenzio, il brusio della voce

Molti studenti, ovunque, interpretano la biblioteca come sala lettura e studio, portandosi i libri da casa, utilizzando gli spazi disponibili, usufruendo di alcuni servizi, ma non del prestito e della consultazione, se non saltuariamente se si considera il tempo trascorso nei locali della biblioteca. Si tratta, ovviamente, di un uso pienamente inquadrabile nella funzione di struttura pubblica, aperta e accessibile alla libera fruizione, anche quando non vengano sfruttate congruentemente tutte le risorse presenti. In un servizio o in un esercizio di tipo privato si tratterebbe di una forzatura non consentita; i tavoli di un ristorante non sono utilizzabili per organizzarci un picnic che preveda la consumazione di cibo proveniente da casa propria.
Per la biblioteca, invece, per quanto si tratti – dal punto di vista dell’erogazione del servizio – di un uso collaterale delle strutture e a bassa intensità d’interazione con l’organizzazione dell’istituzione, si tratta di un’offerta da non sottovalutare affatto, quanto a portata e significato.
Gli studenti si recano nelle sale, soli o in gruppo, per studiare, perché qui trovano le condizioni ideali per la concentrazione nelle proprie pratiche di lettura o di studio: far parte di una comunità che condivide comportamenti e interessi, motivata a coabitare in uno spazio calmo ma stimolante, in una scenografia congruente di libri e silenzio.
Non si trascuri affatto il carattere del luogo, che è sempre presente, sia al momento della lettura, sia nel ricordo che comparirà in un futuro anteriore. Si può leggere anche ‘contro’ il luogo, come in bus o aggrappati a una maniglia della metropolitana, o ancora in sale d’aspetto inospitali al tremito spettrale dei neon, o in un letto di ospedale, per estraniarsi, sovrascrivere l’intorno, rifugiarsi in un altrove; ma il luogo fisico resiste in un layer che il luogo immaginario, evocato fantasmaticamente dalla lettura, lascia trasparire. A maggior ragione nelle ore di studio la coerenza del luogo, la texture ricca di cromatismi dei libri che fodera le nicchie della propria concentrazione, estenderà i suoi effetti benefici anche nel ricordo di quei momenti, di quei testi che continueranno a evocare e ad essere evocati da quello specifico scaffale, da quel taglio di luce appropriata sulla pagina del libro.
E poi il silenzio, lo spazio dove ci si costringe a chiudere o silenziare lo smartphone, pratica non così facile in altri contesti meno motivanti o raccolti, dove l’intrusione continua di messaggi, avvisi, chiamate frammenta le possibilità di concentrazione ed erode la cavità accogliente di un silenzio così difficilmente recuperabile in altri luoghi e perfino a casa, dove le compresenze espongono a continue interferenze. E in tutto ciò gioca un ruolo importante la condivisione, la necessità di non disturbare i vicini con comportamenti poco appropriati al luogo, in un equilibrio di controllo reciproco dell’appropriatezza delle proprie azioni che rende meno difficile e ansiogeno lo spegnimento del cellulare, il suo abbandono nelle profondità degli zainetti.
E, allo stesso tempo, proprio il silenzio non è più un tabù per le biblioteche, che attrezzano aree dove si possa parlare, discutere, studiare insieme, perché produrre conoscenza necessita anche di condivisione e di dialogo, del brusio della voce entro i decibel adeguati a consentire ad altri la stessa pratica. E poi la connessione, il wi-fi, l’accesso al digitale e alle risorse in rete per passare velocemente a una navigazione che connetta istantaneamente altri domini e altri universi.
Così, spesso in spazi adiacenti, convivono pratiche ed esigenze contrapposte ma non contraddittorie: dare spazio all’esigenza di concentrarsi nella solitudine individuale e nel silenzio, trovare le condizioni per de-connettersi, silenziare il cicaleccio petulante dello smartphone, e subito dopo rispondere all’esigenza di confrontarsi, di discutere, di commentare insieme, di ri-connettersi, di navigare altrove, di fare una pausa immergendosi in un videogame, attrezzando anche le soste e le interruzioni di una molteplicità di occasioni e opportunità. Sed-etiam, non aut-aut, perché siamo portatori sani di esigenze complesse e non torme scomposte dai cervelli lobotomizzati; persone dotate di una consistenza e di un volume a tutto tondo e non silhouette dai comportamenti stereotipati e macchiettistici.
Ora, abbandonando questa breve e parzialissima descrizione della ricchezza esperienziale offerta da uno fra i tanti usi possibili della biblioteca – ancor più rappresentativo perché non centrale rispetto alla missione propria – torniamo agli effetti della chiusura parziale o totale delle biblioteche sulle persone e sulle famiglie, per valutare la ‘mancanza’, ciò che è stato sottratto al quotidiano di molti studenti.
Senza evocare situazioni estreme di disagio, sappiamo per esperienza cosa vuol dire la condizione di smart working a casa propria e la convivenza con figli di età diverse: già due genitori che lavorano da casa e due figli intermittentemente impegnati in didattica a distanza richiedono condizioni ottimali altamente strutturate: una connessione stabile e veloce per tutti, PC, laptop, tablet per ciascuno, ma soprattutto la disponibilitàdi spazi e di locali da blindare durante le lunghe ore di Zoom e di DAD.
Si evidenzia una condizione di sicuro stress e disagio nel rendere compatibili e non fastidiosamente interferenti le attività di tutti e di ciascuno, una situazione che, per quanto non drammatica, si rivela molto distante dalle condizioni offerte dalla biblioteca agli studenti ospiti. Il venir meno di quest’offerta ricca e strutturata, la sua mancanza, mostra l’inadeguatezza in questa situazione pandemica di molte abitazioni private: spazi contratti, assenza di pertinenze esterne, scarsa insonorizzazione delle compartimentazioni, e non ultimo i casi in cui paesaggi periferici impongono la loro scenografia avvilita per tutte le ore del giorno.

Il soggiorno che vorremmo

Basta questa breve descrizione per evidenziare come gli spazi di soggiorno delle abitazioni private mostrino tutti i loro limiti in condizioni di pressione, e come il ricorso di molti studenti alle sale lettura delle biblioteche sia tutt’altro che sovrastrutturale nel consentire adeguati luoghi di studio e nel decomprimere allo stesso tempo l’occupazione degli spazi casalinghi a favore degli altri componenti della famiglia.
Si capisce bene come negli anni passati alcune resistenze all’adozione di forme di telelavoro, come allora lo si definiva, o lavoro agile, risiedessero anche nella difficoltà di gestione degli spazi abitativi, evidenziate pienamente in periodo pandemico.
Emerge per contrasto il ruolo essenziale delle biblioteche non solo nel dispiegarsi di un alto valore sociale e urbano che Antonella Agnoli rappresenta nella definizione di ‘piazze del sapere’2, ma anche in una dimensione più raccolta e intima, in un’accoglienza su misura e individuale o di piccolo gruppo, quasi domestica, nell’offerta del soggiorno che noi vorremmo e che non troviamo a casa nostra.
Una struttura pubblica e di rilevanza urbana che si rivolge a una cittadinanza senza discriminazioni di sorta e che pure sa offrire al proprio interno l’appropriazione individuale di quello spazio di soggiorno mancante alle abitazioni private, e non a un solo utente per volta, ma a molte persone nella loro compresenza, nell’equilibrio tra una dimensione pubblica e di appropriazione immaginaria e individuale degli spazi, che non lede le possibilità altrui di fare lo stesso.
Una piccola magia pubblica e domestica allo stesso tempo, che la pandemia ha rivelato appieno nella sua mancanza e nella necessità generalizzata dell’adottare la logica del dover ‘fare senza’. Senza molte, moltissime cose ritenute indispensabili solo un anno fa.

L’eccedenza del senso

Si potrebbe pensare al seguente esperimento mentale: se questa mancanza di sale studio e lettura per studenti è davvero così significativa, in un futuro prossimo, se dovessero permanere esigenze di limitazione delle persone nelle sedi delle biblioteche si potrebbe pensare di dare priorità all’utenza che usa appieno i servizi di prestito e consultazione o ad altri target di utenza, come gli anziani che trovano in biblioteca possibilità di socializzazione e di impiego attivo del tempo, altra componente essenziale del welfare che le biblioteche sanno offrire. D’altro canto, il conflitto – se così lo possiamo definire con un’enfasi bellica non del tutto appropriata – tra l’occupazione degli studenti e l’accesso degli altri utenti della biblioteca non è cosa nuova, ma leggibile sottotraccia in molte biblioteche di diversa grandezza, ben prima della pandemia.
Si potrebbe pensare, allora, di risolvere il duplice aspetto del problema con una campagna di realizzazione di sale studio dedicate, fuori dalle biblioteche alla ricerca di spazi dilatati di fruizione, magari impegnando una minima quota dei fondi del Recovery Fund. Sarebbero pur sempre risorse investite a strutturare formazione, cultura e istruzione3.
Tuttavia, dal punto di vista gestionale le cose non sono così semplici: spazi destinati unicamente a sale lettura avrebbero comunque bisogno di un presidio e di una forma di guardiania che si rivelerebbe presto insostenibile se focalizzato su di un’unica destinazione. Si potrebbe pensare ad altri usi di interesse e di interfaccia dell’amministrazione pubblica con i cittadini, a spazi per coworking e attività formative. Inoltre, sale studio dotate unicamente di connettività, sedie e tavoli non appaiono così seducenti e appropriate a un uso intensivo per molte ore consecutive: una minima dotazione di arredi, scaffali e volumi parrebbe necessaria a fornire un contesto appropriato. Di fatto, man mano che si procede a individuare uno spazio coerente e adeguato ci si avvicina ai requisiti delle biblioteche di ultima generazione, che non a caso mescolano spazi ibridi per la cittadinanza, spazi per la formazione e il coworking, servizi pubblici, sale lettura, accessi al web, sale per consultazione a scaffale aperto, archivi ecc.
E non è un caso, perché studiare è molto più di una funzione: è un complesso di attività che implica molte condizioni al contorno, alcune delle quali assai sofisticate, per potersi dispiegare in condizioni di benessere. Se è pur vero che anche lo studio è un’attività che può essere brandita e scagliata ‘contro’ il luogo in cui avviene, come ad esempio in carcere, pochi, tuttavia, si augurano una lunga condanna per arricchire il proprio bagaglio culturale.
E d’altro canto, una società della conoscenza non può far conto su pochi eroi capaci di vincere condizioni avverse, quanto invece sul provvedere le situazioni più favorevoli, allargate all’intera cittadinanza, per sperare di innalzare il livello collettivo di competenze in tempi coerenti con la velocità necessaria a comprendere le grandissime trasformazioni in atto nelle nostre società, prima che scavino solchi di disuguaglianza, di odio e di rifiuto, i cui segni già fortemente incisivi non è faticoso rinvenire nel nostro quotidiano.
Le eccezioni, le imprese titaniche possono essere abbandonate alla polvere delle retoriche desuete. Già Paul Klee a proposito della formazione sosteneva

Con prudente rispetto, taccia la scuola sul concetto di genio, guardi e passi. A guisa di mistero, lo conservi in un ambito inaccessibile. Conservi un mistero che, uscendo dalla sua latebra, porrebbe forse quesiti illogici, insensati4.

Per coloro che geni non sono, o non sono abitati da motivazioni così forti allo studio, le condizioni di benessere e welfare che le biblioteche offrono non rappresentano un lusso da sibariti ma un sostegno fondamentale al proprio cursus studiorum e alla propria formazione personale. La condivisione di una pratica in una piccola comunità di studiosi raccolti nello stesso spazio rassicura i più incerti sull’appartenenza a un gruppo che offre puntelli identitari e occasioni di socialità; la possibilità di scambiare opinioni, di accedere a confronti, l’immersione in quel brusio di voci che non sono solo umane, dacché come già diceva Warburg, anche i libri negli scaffali dialogano tra loro di rimandi, similitudini e differenze, producendo mormorii, bisbigli e risonanze che consentono di scoprire casualmente nuovi mondi e connessioni, anche solo percorrendo uno scaffale con lo sguardo. E tutto ciò – chi frequenta le biblioteche lo sa bene – è altrettanto importante dei tavoli, delle sedie, della luce appropriata, del comfort complessivo del luogo.
Per questi motivi una prassi non specificamente prevista o espressamente progettata per la biblioteca, come lo studio su testi propri, può insediarsi nell’intersezione di tutte queste componenti con una pienezza altrimenti inarrivabile, grazie a un equilibrio magico: tutte le condizioni prima elencate, infatti, producono un luogo ancora vuoto da interpretare e vivere in molti modi diversi e, allo stesso tempo, un’eccedenza del senso che emana da ogni dove, una dimensione di cittadinanza culturale e sociale che appare già compenetrata nelle architetture e negli arredi, prima ancora che nelle persone.
Questo luogo, vuoto al suo centro, ma denso e saturo di senso al suo intorno, favorisce l’insediamento accogliente e la rappresentazione di ciò che Nancy chiama la comunità inoperosa, il grado zero della comunità, che è l’essere per la società senza altre declinazioni operative, senza necessità di relazioni definite e intense, cosa che non è affatto un ossimoro o un termine di paragone solo concettuale.
La biblioteca, pur nel suo uso più elementare e scarnificato possibile, quello di offerta di un rifugio al riparo dalle intemperie – caldo d’inverno e temperato d’estate – per i moltissimi che in questi lunghi anni di crisi si sono trovati in difficoltà e senza reddito, mette in campo quest’eccedenza del senso, quest’aura che sostiene la piena cittadinanza anche degli ultimi; il fatto di appartenere sì a una comunità inoperosa, ma non derelitta e nemmeno costituita attorno alla cifra del bisogno e della mancanza, com’è in qualche modo dolorosamente inevitabile per le tante associazioni che si occupano di assistenza, svolgendo un compito meritevole e fondamentale, ma che per molti utenti porta in trasparenza lo stigma della povertà e della diseguaglianza, come un tatuaggio che brucia sottopelle.
È questa eccedenza di senso, abitabile e accessibile, che diviene fattore abilitante, ri-contestualizzazione della propria condizione e della propria solitudine in una diversa appartenenza, che riesce a far sentire ancora cittadini molti esclusi, che avvolge di speranze ora timide, ora tenaci, i corsi rivolti agli immigrati che possono avvertire percettivamente il senso della cittadinanza nella dimensione sociale della biblioteca.
Si potrebbe continuare citando l’utenza della terza e della quarta età e le pratiche di mantenimento di un invecchiamento attivo che vedono nella tenuta delle relazioni sociali, nella cura degli interessi culturali e nell’attività di lettura, veri e propri baluardi per presidiare l’allungamento della vita in condizioni di autosufficienza e pienezza, di contro all’allungamento della nuda vecchiaia e delle sue penose criticità.
Anche in questo caso non si possono ricondurre i benefici complessivi a singoli elementi: non è solo la lettura, non è solo la relazione con altre persone, non è unicamente uscire da una casa dove magari si vive soli e cambiare ambiente, non è solo avere altri muri, altri spazi amici ai quali radicare i propri ricordi per costruire un altro luogo istoriato di paesaggi interiori, fattore così determinante per mantenere vivo negli anziani il senso di propriocezione e l’orientamento; è tutto questo e molto di più ancora, come per gli studenti, le persone in condizioni di difficoltà, o i nuovi cittadini: l’immersione in un contesto abilitante e accogliente che accelera e sostiene le dinamiche più positive e il senso del proprio posizionamento nel luogo.
Questo è il complesso di condizioni e di effetti emergenti che sostiene la biblioteca di pubblica lettura come dimensione fisica e immateriale non surrogabile; e per quanto l’essere a tal punto un luogo abilitante faccia pensare a una dimensione magica dello spazio, in realtà è tutto analizzabile, spiegabile, comprensibile, se solo si abbandona l’arroganza riduzionista del funzionalismo. Leggere, studiare, ripararsi, integrarsi, mantenersi attivi, coltivare una passione non sono e non saranno mai funzioni, checché ne pensino alcuni progettisti; sono modalità di presa esistenziale sulla vita, propria e altrui, e la complessità delle condizioni al contorno non è separabile da un ipotetico nucleo duro ed elementare della questione, nella loro ripetizione e nella loro occorrenza continua, specie se si valuta il portato sociale di tali fenomeni. Si tratta di costellazioni esistenziali, che si dispiegano sulla lunga durata, senza un unico centro gravitazionale.
Allo stesso modo, mangiare è un’esigenza primaria e ingurgitare un numero sufficiente di calorie per poter arrivare a domani è questione prioritaria, ma nei termini di una società complessa, un’educazione alimentare e stili di vita non dannosi o distruttivi dal punto di vista dell’alimentazione, sono altrettanto essenziali nel loro insieme per favorire condizioni di vita e di sviluppo accettabili: non si può separare l’emergenza contingente dal complesso delle cure che occorre avere nel corpo sociale, se non in casi eccezionali e temporalmente contenuti, oppure a condizione di pagare costi altissimi che incidono direttamente sulla qualità e sull’aspettativa di vita.
Occorre presidiare e contenere la tentazione di dare risposte semplici ed elementari a esigenze complesse con la presunzione di una maggior efficacia che risiederebbe nella durezza dell’evidenza a prima vista, nella sua configurazione basilare. Nulla è evidente, se non per gli sciocchi e per i superficiali. Una microanalisi di tutte le componenti materiali e immateriali che entrano in gioco nella frequenza, nei comportamenti e nell’offerta relativa alla biblioteca che qui abbiamo accennato solo per alcuni limitati aspetti, con una visione assolutamente parziale e solo esemplificativa, è assolutamente necessaria per capire le componenti in gioco, le loro interazioni, le riverberazioni sulle persone. Solo in questo modo, in condizioni di grandi difficoltà e di socialità mutilata, si può capire fino in fondo, oggi, cosa può essere surrogabile e cosa no, e dar conto dettagliatamente del perché la centralità delle biblioteche nel recupero della socialità, non sia un pensiero ozioso e aristocratico, ma una necessità sociale, difficilmente soddisfacibile altrimenti, se non impossibile da sostituire.
Se si affina l’analisi, quella magia, tutt’altro che sovrannaturale, che sostiene e abilita con la sua aura ed eccedenza di senso l’attività di studio, diviene chiaro come non sia riproducibile costruendo sale di lettura decontestualizzate, producendo solo i supporti materiali necessari, così come non basti regalare libri agli anziani per contribuire al loro benessere o infliggere una formazione asettica per abilitare immigrati a essere a pieno titolo cittadini.
L’intera complessità dei fattori abilitanti che la biblioteca mette in campo, nella loro sottigliezza, pervasività e anche immaterialità, non è affatto un orpello o un arricchimento ancillare ma è parte determinante al sostegno delle attività. E il fatto che si tratti di componenti spesso assai raffinate, preziose, immateriali non le rende meno determinanti e sostanziali. Anzi.
Verrebbe da dire «Sottile è il welfare…» parafrasando la celebre frase di Albert Einstein «Sottile è il Signore, ma non malizioso», per indicare come il senso delle cose vada ricercato con costanza e in profondità, nonostante la superficie delle cose non sia – per questa stessa ragione – ingannevole.
E sottile è il welfare, così come il welfare culturale5, perché anche qui non si tratta di assenza di disagio o di una situazione di deprivazione, ma di una condizione esistenziale molto più complessa e ricca, allo stesso modo in cui la Carta di Ottawa riconosce come la salute non sia riducibile all’assenza di malattia, ma implichi invece una concomitanza e una convergenza di condizioni favorevoli e di equilibri dinamici che dipendono da una molteplicità di relazioni e scambi tra individuo, società e ambiente.

In futuro

Tornando alle biblioteche di pubblica lettura, e alle note a margine precedenti, la conclusione non può essere altro che si tratti, per molti aspetti diversi, di una istituzione/infrastruttura urbana – anche dal punto di vista del welfare – di primaria importanza e difficilissima da surrogare o sostituire nella complessità delle sue attività e nella sua capacità di sostegno di fruitori così diversi; proprio le chiusure di quest’ultimo anno ne hanno evidenziato la mancanza, insieme alla scia di effetti che il prolungarsi di questa situazione produrrà nel prossimo futuro.
Dunque, la priorità sta nelle riaperture e nello sforzo per individuare modalità di fruizione che rispettino le procedure di contenimento della pandemia, ma consentano al contempo di rilasciare progressivamente possibilità d’uso e diverse modalità d’accesso alle biblioteche.
Tuttavia, un’altra priorità si pone sullo stesso livello d’importanza e consiste nell’evidenziare attraverso valutazioni supportate da analisi rigorose il ruolo primario della biblioteca non solo nel mondo culturale, ma anche nella sua dimensione sociale, territoriale e urbana.
Ciò significa tenere in considerazione per il prossimo futuro una capacità di investimento per dotare le biblioteche esistenti e in progetto di nuovi e più ampi spazi per accogliere gli utenti in condizioni di sicurezza e non di assembramento; significa tener conto dell’esigenza di valorizzare appieno questa infrastruttura, non solo come simbolo culturale, flagship per operazioni di rinnovo urbano in un sistema di marketing delle principali città della cultura; aspetto sicuramente importante, ma non quanto il ruolo di sostegno della cittadinanza, di empowerment degli utenti, di dispiegamento di condizioni di benessere rilasciate nel contesto urbano, ben oltre un dover prestare attenzione alla cultura, quasi fosse una tassa da pagare a una snobistica retorica contemporanea.
Proprio l’estrema difficoltà di surroga dello spazio fisico, i ruoli di soggiorno quasi domestico e aperto all’immaginario, di riparo dalle intemperie e anche dalle erosioni dell’autostima, di rinforzo della cittadinanza per chi ne percepisce ancora solo l’orizzonte in lontananza, la cui importanza non è certo oscurata dalle pratiche di digitalizzazione (che ci auguriamo siano le più estese ed efficaci possibile), dovrebbero motivare una politica di investimenti che unisce nello sforzo il comparto culturale, il sociale e i servizi di assistenza, prevenzione e cura per esaltarne e orientarne gli impatti. Delicatamente, senza forzare la magia degli effetti emergenti che le biblioteche sono state capaci di produrre, anche solo accogliendo e ammettendo, con gentilezza e cura, usi non previsti – bracconaggi dei fruitori, come amerebbe dire De Certeau – senza mettere in campo rozze contabilità di cause ed effetti in archi di tempo elettorali, ma investendo sull’intelligenza profonda delle dinamiche di sostegno attivo a una cittadinanza con esigenze sempre più estese e complesse, come ormai è sotto gli occhi di tutti.
Un’analitica di dettaglio della microfisica e della micro-metafisica, fatta di descrizioni e riscontri puntali, anche su aspetti minuti e apparentemente marginali del funzionamento e degli effetti delle biblioteche potrebbe aiutare in un processo orientato a costruire una maggior consapevolezza dei valori in gioco da parte dei decisori pubblici e dell’intero corpo sociale. Non è opzione esornativa o troppo raffinata.
Sottile è il welfare.


Note

Ultima consultazione siti web: 20 febbraio 2021.

1Viene dato qui per scontato il presupposto di come l’abitudine alla lettura e la capacità di comprensione di testi complessi sia alla base di competenze basilari e irrinunciabili delle persone, parte essenziale dell’abilitazione a una cittadinanza attiva e componente fondamentale per lo sviluppo sia individuale, sia sociale. L’assumere in termini apodittici tutto ciò – peraltro ampiamente dimostrato da ricerche e analisi scientifiche – è in funzione dell’economia e della focalizzazione di questo testo.
2Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Bari: Laterza, 2009.
3Non si avanza qui l’ipotesi dell’incrementare la dotazione di sale studio nelle scuole non solo per la difficoltà diffusa di reperire spazi adeguati già solo per la didattica tenendo conto dei distanziamenti, ma anche perché l’ambiente scolastico connota in modo del tutto differente qualunque spazio studio, sovrascrivendone esplicitamente la connessione con l’obbligatorietà scolastica, con il controllo parentale e istituzionale – una caduta verticale di serendipity, condizione non secondaria di apprendimento – oltre che per molte altre ragioni, qui non riportabili per esteso.
4Paul Klee, Confessione creatrice e altri scritti. Milano: Abscondita, 2004, p. 59.
5Si veda la voce redatta da Annalisa Cicerchia sul welfare culturale nell’Atlante Treccani: https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Welfare.html#:~:text=L'espressione%20Welfare%20culturale%20indica,performative%20e%20sul%20patrimonio%20culturale.