di Alberto Petrucciani
La terminologia della catalogazione soffre da parecchi anni, purtroppo, di cambiamenti (soprattutto l’eliminazione di termini sentiti come obsoleti) e innovazioni, sia a livello internazionale che in ambito nazionale, dovuti a decisioni prese in maniera frettolosa, superficiale e approssimativa. Ne vedremo alcuni esempi in questo contributo.
La terminologia impiegata in un campo professionale, invece, è una cosa seria, va curata e decisa con grande attenzione e cautela, sulla base di una matura e ponderata riflessione, come del resto avviene, in genere, in campi diversi dal nostro. Una ragazzina ha il diritto di voler cambiare sandaletti o magliettine ogni stagione, naturalmente, ma in un campo professionale non si può e non si deve procedere in questo modo. È evidente che la stabilità della terminologia professionale è un valore molto importante e che cambiarla spesso e capricciosamente è un fatto negativo, che manifesta anche la mancanza di senso di responsabilità di chi procede così.
È evidente che in molti casi, soprattutto facendo diventare tabù le espressioni correnti in passato – come scheda, intestazione, autore ecc. – si è cercato di ‘darsi un tono’, si voleva sembrare à la page, e in particolare, per lo più, scimmiottare l’informatica, più trendy dell’antico lavoro del bibliotecario. Infatti le biblioteche, come si sa, si chiamano con la stessa espressione da duemila anni, e i bibliotecari da poco meno. In ambiti seri, come la fisica, ovviamente questi tabù non hanno spazio, e si può continuare tranquillamente a chiamare ‘atomo’ (cioè ‘indivisibile’) ciò che da lungo tempo viene diviso. Del resto continuiamo tranquillamente a chiamare ‘libro’ un oggetto che da molti secoli non ha nulla a che fare con uno strato della corteccia degli alberi (liber), e gli studiosi di letteratura continuano tranquillamente ad adoperare la parola ‘scheda’ nel significato generale che ha, indipendente da una particolare conformazione materiale.
Un forte impatto sulla terminologia catalografica, a livello mondiale, hanno avuto le norme ISBD, redatte a seguito dell’Incontro di Copenaghen del 1969, su cui mi soffermerò in particolare. Ma purtroppo anche in molti altri documenti, e spesso peggio di quanto sia avvenuto nella redazione delle norme ISBD, sono stati introdotte – soprattutto a livello internazionale – espressioni chiaramente del tutto inadatte o inadeguate.
In parecchi casi ci si è appropriati di espressioni già in uso in informatica, ovviamente con un significato diverso. Si tratta di un modo di procedere doppiamente criticabile e anzi detestabile, sia perché introduce confusione tra campi che hanno alcune affinità (e rispetto a un campo che spesso il bibliotecario deve in qualche misura conoscere), sia perché salta agli occhi che è un modo di autopromuoversi fingendo di essere altro da ciò che si è nella realtà.
Un esempio è ‘punto di accesso’ (access point), che in informatica ha o ha avuto significati diversi: ora in genere indica un apparecchio per la connessione wireless, come spiegato nella relativa voce della Wikipedia italiana. Particolarmente infelice è il termine ‘punto’, non essendo gli elementi di accesso dei cataloghi di natura puntiforme (senza dimensioni, non divisibili): sono, invece, espressioni spesso lunghe e complesse, che possono essere costituite da più segmenti (ad esempio per enti subordinati registrati in forma gerarchica), ciascuno dei quali spesso costituito da componenti diverse (ad esempio, per i nomi di persona, il nome personale, il cognome, un titolo ecc.).
Un primo intervento di pulizia consiste quindi, come hanno fatto le REICAT, nell’espungere l’espressione inadeguata e scorretta ‘punto di accesso’, sostituendola quanto meno con ‘elemento di accesso’.
Un altro esempio veramente deprecabile è l’impiego del termine ‘autorità’ (authority), diffuso a partire dagli anni Settanta/Ottanta del Novecento. È evidente che quello che chiamiamo in questo modo in catalogazione non ha proprio nulla a che fare con l’autorità o, all’inverso, che il significato di authority, in primo luogo – ad esempio, nel dizionario di Oxford, «power to enforce obedience» ossia «potere di imporre l’obbedienza» – non ha assolutamente nulla a che vedere (per fortuna, vien voglia di aggiungere) con il lavoro di controllo delle intestazioni o di altri elementi utili per la ricerca nei cataloghi.
In una situazione in cui già soffriamo della continua introduzione di nuovi termini in maniera superficiale e approssimativa, la continuità è almeno un elemento positivo, e quindi sembra difficile poterci disfare, subito, di un’espressione così inadeguata come ‘autorità’, che è in uso da molti anni. Converrà quindi, forse, rimandare la ‘rottamazione’ di questa espressione a tempi meno grami per la teoria catalografica.
Le norme ISBD, come si è detto, hanno avuto un forte impatto sulla terminologia catalografica, a livello internazionale. Evitando di seguire le vicende, piuttosto complesse, dell’elaborazione del testo e delle sue prime versioni, prendiamo come riferimento la First standard edition (in inglese, naturalmente) del 19741.
In questa edizione ricorre largamente l’espressione statement, che quindi occorre interpretare correttamente. In italiano, come equivalente di questa espressione è stata impiegata la parola ‘indicazione’: scelta del tutto corretta, come vedremo, ma purtroppo per diversi anni contrastata da un’alternativa, ‘formulazione’, che è del tutto insostenibile.
Se esaminiamo il testo inglese del 1974, vediamo subito e facilmente che l’espressione è impiegata sia per indicazioni che il catalogatore desume dalla fonte (per esempio il frontespizio di un libro a stampa) sia per indicazioni formulate dal catalogatore e quindi riportate nella descrizione in parentesi quadre (ad esempio in area 2), sia ancora per le indicazioni che fanno parte dell’area della descrizione fisica: indicazioni che non sono trascritte dalla fonte ma inserite dal catalogatore – nella lingua del catalogo, non in quella della pubblicazione, e in forma normalizzata – per completare il tracciato della descrizione. Nel testo quindi troviamo, ad esempio, «Illustration statement» (par. 4.2) e «Accompanying material statement» (par. 4.4), per le indicazioni della presenza di illustrazioni e di materiale allegato.
È evidente, perciò, che l’espressione statement ‘non’ si riferisce a formulazioni presenti sulla fonte (come qualcuno a volte crede o afferma), ma a componenti (elementi) del tracciato della descrizione.
L’espressione ‘formulazione’ è stata recentemente riesumata, con enfasi degna di miglior causa2, ma basta consultare un buon vocabolario inglese per verificare che l’area semantica di statement e quella di formulation (l’equivalente inglese dell’italiano ‘formulazione’) sono ben diverse e sostanzialmente lontane. Lo conferma anche uno strumento diverso come Google Traduttore che, oltre all’equivalente preferito di statement (nel nostro caso ‘dichiarazione’3), presenta altre espressioni idonee a tradurre, a seconda dei casi e del contesto, quella cercata. Non vi sono sovrapposizioni significative con quanto Google Traduttore presenta per il termine formulation.
Nella Consolidated edition delle norme ISBD si parla di «music format statement» (che può mancare nella pubblicazione ed essere aggiunto dal catalogatore), di «statement of other physical details», di «extent statement» (ad esempio per la paginazione), di «illustration statement», di «dimensions statement»4, e credo che nessuno possa mai tentare di sostenere che le dimensioni (in cm) si indicano sulla base della loro (inesistente) formulazione sull’oggetto. Quando invece si vuole attirare l’attenzione del catalogatore su come un’informazione è formulata nella fonte, si usa piuttosto, correttamente, il termine wording, e non statement.
Dell’impiego del termine ‘formulazione’ al posto dell’inglese statement si discusse alla fine degli anni Ottanta del Novecento, in occasione della pubblicazione della traduzione italiana di ISBD(G), ma purtroppo nelle prese di posizione di allora, da parte di Luigi Crocetti e anche di Diego Maltese, non si esaminarono con sufficiente attenzione i testi5. Infatti nei testi originali, anche di ISBD(G) oltre che di ISBD(M), statement non è impiegato soltanto per le aree 1, 2, 4 e 6, ma anche per l’area 5, della descrizione fisica, che non è un’area di trascrizione.
Ulteriore prova del pasticcio creato dalla proposta di tradurre statement con ‘formulazione’ è la traduzione italiana, pubblicata nel 1988, della Revised edition originale di ISBD(M) (1987). In questa, infatti, statement è stato tradotto con ‘formulazione’ nelle prime quattro aree e nella sesta, mentre in quella della descrizione fisica si è continuato a usare ‘indicazione’6. Sarebbe dovuta bastare questa verifica concreta a smontare definitivamente l’ipotesi, campata in aria, di tradurre statement con ‘formulazione’.
Purtroppo, tra chi si è occupato di catalogazione in Italia è stato largamente diffuso l’atteggiamento di svalutare la tradizione nazionale e di propagandare il pedissequo e goffo ricalco della tradizione americana. La tradizione catalografica italiana è invece una tradizione di alto profilo, non solo ai tempi del padre Audiffredi (che costituirà un punto di riferimento fondamentale per Panizzi), ma anche nel Novecento, tanto che a seguito degli accordi della Conferenza di Parigi del 1961 le norme italiane e i cataloghi delle nostre biblioteche richiesero adattamenti di dimensioni limitate (il maggiore fu forse la fusione, sotto l’intestazione scelta per un ente territoriale, delle intestazioni per i suoi organi, allora dispersi ciascuno sotto il proprio nome). Al contrario, come è noto, la tradizione americana subì colpi pesanti, che incidevano su percentuali significative del materiale descritto nei cataloghi, tra i quali il netto rifiuto, nei Principi di Parigi, di assimilare il curatore (editor o compiler) all’autore, e il necessario abbandono della pratica di registrare molti enti non sotto il loro nome ma sotto la città in cui avevano sede.
Ogni uomo porta le responsabilità di quello che fa, lo voglia o no. La svalutazione della tradizione italiana non ne ha solo tarpato lo studio, ma ha frenato la valorizzazione delle biblioteche italiane e ha inciso negativamente sulla motivazione dei bibliotecari: non è mai una buona cosa indulgere al parlar male dei propri vecchi, come ricordava Renato Serra al principio del secolo scorso. Già Maltese aveva notato, nel contributo citato, che i cambiamenti nell’edizione del 1987 «innovano senza necessità, creando confusione»7. I «fastidiosi calchi» che segnalava Maltese hanno condizionato e danneggiato la pratica e la teoria della catalogazione nel nostro Paese, mentre le traduzioni corrette delle normative internazionali non sono «testi addomesticati», come insinuava Crocetti8, ma semplicemente traduzioni corrette. Dispiace dover notare qui che una persona colta e fine come Luigi Crocetti si sia adagiato su ricalchi del tutto inaccettabili in italiano – li si nota anche nella traduzione della Classificazione decimale Dewey, su cui però non ci si può soffermare qui e ora – e sull’imitazione della tradizione angloamericana oltre ogni limite di linguaggio corretto e di buon senso. Prendendo come unico esempio una pagina, la penultima, della Prefazione di G. Thomas Tanselle a Letteratura e manufatti, uno degli ultimi lavori di traduzione di Crocetti, vi troviamo «la fallace nozione»: anche ammesso che sia accettabile il ricalco dell’aggettivo e del sostantivo dell’originale, come tutti sanno la posizione dell’aggettivo è di norma opposta fra le due lingue, e quindi si doveva scrivere, semmai, «la nozione fallace»9. Due righe sotto troviamo «gli amministratori di biblioteca»: library administrator è espressione corrente in inglese (o almeno in americano), mentre in Italia – dove ad esempio è frequente ‘amministratori di condominio’ – semplicemente non esiste. Quella espressione ha zero occorrenze (pertinenti) in Google Libri, e anche in Google la si trova molto di rado e con un significato diverso (di gestore dei servizi informatici della biblioteca, non di responsabile del suo bilancio e delle sue spese). Si sta parlando dei direttori (o se si vuole dirigenti) delle biblioteche, che a volte hanno alle loro dipendenze un ufficio amministrativo, o almeno un funzionario amministrativo, che appunto si occupa dell’amministrazione (in un senso diverso, è evidente, da quello che ha in americano).
Personalmente appartengo a una generazione che si è formata manifestando spesso e volentieri contro il governo degli Stati Uniti, e nello stesso tempo amando grandi americani impegnati come Bob Dylan e Joan Baez: una pedissequa acquiescenza a chi comanda, insieme a uno snobistico sussiego verso gli italiani, quello che hanno fatto e fanno e la loro lingua e cultura, non potrà mai risultarmi digeribile, chiunque la firmi.
Tornando alle norme ISBD, riguardo al titolo le edizioni originali hanno fatto un po’ di confusione, sovrapponendo nell’espressione title proper due questioni del tutto distinte e diverse, l’ambito compreso dal termine title e la possibile presenza, sulla fonte principale d’informazioni di una pubblicazione (ad esempio il frontespizio di un libro), di più titoli.
Titulus significa in origine, in latino, non tanto l’espressione con cui si identifica una singola opera (significato che ha oggi in italiano la parola ‘titolo’) quanto una designazione (scritta sull’oggetto stesso o su un’etichetta fissata ad esso) che generalmente, o comunque molto spesso, contiene anche altri elementi, tra i quali soprattutto il nome dell’autore (analogamente a quanto avviene oggi nella prima area di una descrizione ISBD).
Questo significato si è mantenuto a lungo – nell’Epistola a Cangrande della Scala si legge, ad esempio, «Libri titulus est: ‘Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus’» – e, mentre è poi sostanzialmente scomparso in italiano, si è mantenuto in inglese. Come si sa, l’inglese ha mantenuto con particolare costanza alcuni usi latini, dal plurale in -i dei sostantivi in -us (come focus e thesaurus) ad alcune abbreviazioni, come i.e. ed e.g. (che si leggono normalmente nella forma inglese, that is e for example, che non corrisponde all’abbreviazione stessa).
Per questo motivo, le norme ISBD hanno utilizzato l’espressione title proper, cioè – come traduce correttamente la prima edizione italiana – «titolo in senso stretto», titolo nel senso moderno (espressione con cui si designa un’opera) invece che in quello antico. Il significato antico della parola traspare anche nell’espressione other title information dei testi ISBD, che la traduzione italiana ha reso con il più corretto ed efficace «complementi del titolo»10.
Nelle definizioni dell’edizione del 1974, però, la questione viene confusa con quella della presenza di più titoli (in senso stretto o moderno), definendo Title proper come «The chief title of a publication», ossia come equivalente di ‘titolo principale’.
Ancora peggio si è fatto in italiano, proponendo una traduzione «titolo proprio» che è del tutto sbagliata sia sotto il profilo linguistico che sotto quello catalografico. Qualche volta è stata proposta un’analogia tra ‘nome proprio’ e ‘titolo proprio’, che doveva essere sufficiente a capire che si stava imboccando una strada evidentemente sbagliata. Come si vede a prima vista, in proper name l’aggettivo precede il sostantivo, come avviene di norma in inglese, mentre in title proper quello che appare come un aggettivo segue il sostantivo: le due espressioni, quindi, ‘non’ possono avere un significato analogo. Come spiegano le buone grammatiche, ma come si comprende anche intuitivamente, l’espressione che segue il sostantivo non ha lo stesso valore di quando è usata come un aggettivo (e quindi lo precede): ad esempio, il consulate general di un paese (che si può trovare in varie città italiane) non è un general consulate.
Le REICAT hanno risolto finalmente questi pasticci delle norme ISBD e di alcune loro traduzioni, adottando l’espressione semplice ‘titolo’ per intendere ciò che s’intende con la parola nel linguaggio ordinario11, e ‘titolo principale’ per la questione della scelta di uno dei titoli che compaiono sulla fonte12.
Altri pasticci relativi al titolo si sono verificati nelle norme ISBD, soprattutto nel periodo successivo all’edizione del 1974, con l’introduzione dell’espressione «Publications without a title proper». Può accadere, naturalmente, che una pubblicazione sia del tutto priva di titolo, come spiegano ad esempio le REICAT al par. 4.1.1.6, e quindi il catalogatore debba, in qualche modo, formularne uno, da racchiudere in parentesi quadre, trattandosi di un elemento obbligatorio della descrizione13. Questione del tutto diversa – anche se le norme ISBD la confondono con la precedente – è che una pubblicazione può recare più titoli, relativi a opere diverse o comunque a componenti diverse del contenuto. In questo caso a mancare non è un ‘titolo in senso stretto’ – anzi ce n’è più d’uno – ma un ‘titolo d’insieme’ (REICAT, par. 4.1.1.5). Mancanza di un ‘titolo d’insieme’ ‘non’ significa, ovviamente, mancanza di un ‘titolo principale’: quale titolo vada considerato come principale, e cioè in concreto riportato per primo nell’area 1 della descrizione, è una decisione del catalogatore, da prendere sulla base delle norme, in casi come questo oppure quello di titoli in più lingue (o ancora, in ambito diverso, per la scelta dell’opera principale contenuta in una pubblicazione).
La confusa e contraddittoria categoria delle ‘pubblicazioni senza titolo in senso stretto’ ricorre ampiamente in varie edizioni delle norme ISBD, ad esempio nella Revised edition di ISBD(M) del 1987, e ancora nella 2002 revision che afferma «1.1.2.10 There is no title proper for a publication containing two or more individual works but lacking a collective title» e utilizza ancora l’espressione «Publication without a title proper» ai par. 1.1.4.2, 1.4.4.5 e 1.5.4.1214. Fortunatamente questo grave difetto delle norme è stato risolto nella Consolidated edition del 2011, che espungono l’assurda espressione citata e dedicano due paragrafi a Resources without any title (par. 1.1.4.5) e Resources with two or more works without a collective title (par. 1.1.4.4)15.
Se la conoscenza dell’inglese è spesso molto parziale e approssimativa negli italiani, come è ovvio, bisogna guardarsi bene dal credere che una buona conoscenza di una determinata lingua sia una sorta di condizione necessaria, o scontata, nelle persone di madrelingua. In tutto il mondo, come tutti sanno ma spesso dimenticano, insegnanti delle scuole e anche docenti universitari svolgono ogni giorno il compito, certo non lieve né di esito rapido e sicuro, di far acquisire agli studenti una buona conoscenza della propria lingua materna, o almeno del suo uso in testi scritti.
Racconta un aneddoto di fine Ottocento che un anziano professore di Bologna, da tempo in pensione, continuava a trascorrere la sua giornata sui libri, cosicché la fantesca gli domandò, con evidente atteggiamento negativo, che cosa mai studiasse, alla sua età e nella sua condizione. Il professore rispose: ‘Studio la mia lingua, che ancora non so’.
Chi scrive, ad esempio, ha sentito un’autorevole bibliotecaria della Library of Congress affermare che la parola author non doveva essere utilizzata nella catalogazione in quanto si applica solo agli autori di testi scritti. Per curiosità, andai subito a controllare nei buoni vocabolari inglesi a disposizione nel mio dipartimento, verificando che invece la parola author ha una portata molto più larga (può riferirsi anche a fondatori, inventori ecc.) ed è tradizionalmente applicata anche a compositori di musica e ad artisti, che producono opere di arti figurative, come avviene in italiano.
È bene quindi essere consapevoli che, purtroppo, anche persone che in genere consideriamo esperti di catalogazione o esponenti autorevoli della professione possono spesso affermare tranquillamente, a voce o per iscritto, cose che risultano, a un controllo, essere false.
Mentre il ripudio del termine ‘autore’, da sempre ben radicato nella catalogazione, è evidentemente ingiustificato – in Italia, del resto, oltre ai quadri d’autore, le canzoni d’autore ecc., abbiamo perfino la cucina d’autore –, una pessima innovazione è stata l’introduzione, in alcuni documenti (ad esempio nello Statement of international cataloguing principles, ma non nelle norme ISBD) di creator, termine da ogni punto di vista inadeguato, assurdo, tale da manifestare solo la superficialità e la confusione mentale di chi l’ha introdotto in ambito catalografico. Come si sa (o si dovrebbe sapere) le opere che costituiscono la componente maggioritaria del patrimonio delle biblioteche, quelle testuali (e allo stesso modo quelle musicali), non vengono ‘create’ – ex nihilo? – ma ‘composte’: l’autore utilizza di norma parole (o, nel caso dei musicisti, note) che preesistono, in una certa lingua, scegliendole e disponendole in una certa successione. È del tutto evidente che anche l’autore di un’opera d’arte figurativa non ‘crea’: ad esempio applica dei colori (più precisamente, dei preparati di diverso colore, confezionati in tubetti o in altri modi, o eventualmente prodotti da lui stesso) su una determinata superficie o, nel caso di uno scultore, elimina con un attrezzo parti di un blocco di marmo o di altri materiali ecc. ‘Creare’, ovviamente, significa tutt’altra cosa, e basta guardare in un buon vocabolario per sincerarsene.
Si può osservare inoltre che è normale, o comunque inevitabile, che i testi normativi elaborati a livello internazionale siano stesi in inglese e approvati in quella forma, per essere poi tradotti nelle altre lingue. Tuttavia, chi li redige dovrebbe avere almeno l’accortezza di prestare attenzione a espressioni condizionate da peculiarità singolari (e spesso poco chiare) della lingua inglese, evitandole, e utilizzare invece espressioni inglesi chiare, logiche e precise, che si prestino alla traduzione in altre lingue. Joyce scriveva come garbava a lui, naturalmente, senza preoccuparsi dei futuri eventuali traduttori, ma un comitato IFLA non è Joyce e dovrebbe comportarsi col buon senso e l’attenzione che il suo compito richiede.
Inoltre, i comitati che lavorano a testi destinati ad avere valore sul piano internazionale dovrebbero seguire con attenzione le loro traduzioni in lingue diverse, che spesso costituiscono una spia preziosa dei difetti e limiti del testo originale e possono offrire importanti suggerimenti per il suo miglioramento (basta pensare, ad esempio, all’espressione italiana ‘complementi del titolo’).
Affrontare questioni di teoria catalografica e soprattutto partecipare all’elaborazione di documenti normativi richiede lo sforzo di uno studio organico e approfondito dei temi, anche nella loro evoluzione storica, e quanti vogliono partecipare a questo tipo di attività dovrebbero tenerlo presente per ovvi motivi di carattere sia etico sia professionale.
Ultima consultazione dei siti web: 28 luglio 2021.