Giovanni Solimine
Cari ragazzi,
vedo che oggi siete più numerosi del solito e che al drappello dei fedelissimi si sono aggiunti alcuni ‘studenti’ un po’ avanti negli anni: riconosco tanti volti noti e nella lista delle persone collegate tanti nomi importanti, importanti non solo per la funzione che esercitano o il posto che occupano, ma innanzi tutto per me, perché accomunati da vincoli di colleganza, collaborazione, amicizia. Grazie a tutti per esserci.
Questa è l’ultima lezione del mio corso di questo semestre. Ma è anche l’ultima lezione in assoluto di una attività didattica non breve, che si è sviluppata intorno ad alcuni nodi tematici: il libro, la biblioteca, l’accesso alla conoscenza. Ed è di questo che vorrei parlarvi oggi.
Come si addice a una lezione conclusiva, cercherò di ricavare il senso di ciò che si è andato dicendo nelle lezioni precedenti e partirò da quella che trent’anni fa fu la mia prima lezione. Così chiudiamo il cerchio.
In effetti, non si trattava di una lezione vera e propria, ma di una ‘prova generale’: era la cosiddetta prova didattica, che fui chiamato a sostenere per il superamento del concorso per entrare nei ranghi dei professori universitari. Era il 1992 e l’argomento della lezione, sorteggiato 24 ore prima davanti alla commissione, fu il 'controllo bibliografico universale'. Sono grato a chi mi diede fiducia allora, in occasione di quel concorso, aprendomi una strada che mi ha dato molte soddisfazioni, e a chi ha continuato a darmi fiducia negli anni successivi nelle università in cui ho lavorato.
Parlavamo dell’argomento di quella lezione, di cui conservo ancora gli appunti che, dovutamente ampliati, divennero poi un volumetto dallo stesso titolo, pubblicato nel 1995 dall’Associazione italiana biblioteche.
Leggo da quel libricino: «Con l’espressione “controllo bibliografico universale” si designa un sistema internazionale finalizzato a rendere universalmente e immediatamente disponibili […] le registrazioni bibliografiche delle pubblicazioni prodotte in tutti i paesi». Questo programma - voluto quasi cinquant’anni fa, negli anni Settanta, dall’Unesco e dall’IFLA, la Federazione internazionale delle associazioni e delle istituzioni bibliotecarie - intendeva riprendere e realizzare in termini adeguati e con gli strumenti e le tecnologie allora disponibili un’antica aspirazione della comunità degli studiosi e dei bibliotecari-bibliografi a dominare l’universo delle conoscenze registrate nella produzione libraria. Un obiettivo o, se preferite, un’utopia che nelle diverse epoche storiche ha dato vita a svariati tentativi di compilazione di bibliografie universali.
L’idea di raccogliere, ordinare e rendere disponibile tutto il sapere attraverso un unico punto di accesso ha radici assai remote e costituisce una delle più antiche aspirazioni dell’umanità.
In termini relativamente moderni possiamo datare questo processo ai grandi umanisti e bibliografi del Rinascimento, creatori delle prime vere biblioteche virtuali, costruite con la memoria e sulla carta, anziché con i bit. Quando, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, cominciò a diffondersi la consapevolezza che una singola raccolta libraria non sarebbe più stata sufficiente a controllare l’universo bibliografico disponibile già all’epoca, e che andava rapidamente ampliandosi a causa delle trasformazioni che la stampa a caratteri mobili aveva introdotto nella produzione e nella diffusione dei libri, allora nacque la bibliografia moderna. Questo processo culmina a metà del Cinquecento con il primo serio tentativo di dar vita a una bibliografia esaustiva, la Bibliotheca Universalis di Conrad Gesner, che segnala complessivamente circa 16.000 opere di oltre 5.000 autori. Praticamente tutte le conoscenze disponibili in quel momento.
Tutto comincia da lì. Anche se quei propositi – sia quelli che risalgono a cinque secoli fa, sia quelli di cinquant’anni fa – possono apparire ormai datati e perfino farci sorridere, quelle idee costituiscono ancora oggi la base concettuale del servizio bibliotecario del presente e del futuro e sono l’essenza della nozione di ‘organizzazione bibliografica’, nome d’insieme con cui possiamo descrivere il sistema di tutte le biblioteche collegate in rete.
La definizione di biblioteca come organizzazione bibliografica è forse la più completa che si possa dare per un istituto chiamato a rispondere al bisogno di accesso alle informazioni e ai dati, mettendo a disposizione strumenti di lavoro per la selezione, appropriazione e rielaborazione critica del sapere registrato nei documenti.
Quella è la spinta che anima i processi di produzione e circolazione della conoscenza, dall’ansia che l’umanità ha sempre provato per cercare di dominare tutto il sapere del mondo, dalla funzione di mediazione che non solo le biblioteche, ma anche gli insegnanti, i giornalisti, gli editori e tanti soggetti, appartenenti ad altri mondi professionali, esercitano per mettere in comunicazione interrogativi e risposte, domanda e offerta di conoscenza.
E per me quella è la spinta che col passare del tempo mi ha indotto ad ampliare il raggio dei miei interessi, anche in quella che era la mia attività precedente all’ingresso nell’università (sono diventato professore piuttosto tardi, avevo più di quarant’anni). Negli anni mi sono dapprima occupato di biblioteche e poi ho progressivamente allargato il mio orizzonte alla funzione del libro e della lettura, al tema delle competenze in quella che oggi si definisce knowledge society e, infine, al modo in cui la cultura si forma e circola in rete.
A questi temi ho dedicato i miei ultimi quattro libri, pubblicati da Laterza tra il 2004 e il 2020. Ora, col senno di poi, posso dire che questi lavori appartengono a un unico disegno, non progettato lucidamente all’inizio, ma che ha preso forma a mano a mano nel corso degli anni, come naturale proseguimento di un itinerario, nel quale ogni tappa traeva origine dall’approdo della tappa precedente.
Non mi sono mai sentito appagato del mio lavoro: non appena usciva uno di questi volumi avvertivo la necessità di andare oltre.
Mi aiuterò riprendendo e parafrasando qualche brano tratto dai quattro volumi che ho dedicato a questi quattro pilastri della circolazione del sapere: è chiaro che i miei contributi sono quattro mattoncini all’interno di pilastri che altri e più abili fabbricanti hanno cominciato a gettare molto prima di me e che hanno bisogno di essere rafforzati e manutenuti attraverso il lavoro che altri stanno facendo e continueranno a fare. Tutti i professori sono convinti della propria immortalità e questa non è una folle presunzione, ma è il segno della fiducia riposta nei propri allievi e nel fatto che altri demoliranno e costruiranno meglio di noi ciò che abbiamo cercato di metter su, magari utilizzando come materiale di risulta ciò che resta del nostro lavoro.
Nel 2004 scrissi un volume intitolato La biblioteca: scenari, culture, pratiche di servizio. Quale concezione della biblioteca intendevo avanzare? La biblioteca è, certo, una collezione in cui si stratifica nel tempo la produzione culturale, è il risultato del lavoro di organizzazione di queste collezioni in funzione dell’uso, è quindi l’insieme dei servizi che ne scaturiscono; ma è essenzialmente un luogo dialettico, un «crocevia [che] separa e congiunge, mette in relazione e allontana, isola e unisce i diversi interessi e linguaggi, che vi convergono e che da esso si diramano. Dalla biblioteca gli utenti si attendono risposte, eppure essa è il luogo del dubbio e dell’incertezza. Tra i compiti della biblioteca c’è quello di rappresentare la molteplicità del reale e di fornire chiavi di lettura di questa realtà, strumenti per interpretarla, e non rassicuranti certezze dietro le quali nascondere i problemi». Per rendere possibile tutto questo è essenziale la funzione di mediazione, che può essere esercitata efficacemente solo se la biblioteca è capace di interpretare i bisogni dei suoi utenti e le loro domande, da un lato, e di rappresentare con la propria offerta, sul versante opposto, i contenuti pertinenti ai bisogni informativi di quegli utenti, individuati attraverso un accurato lavoro di selezione all'interno della produzione editoriale. Una mediazione che si esercita accogliendo gli utenti, analizzandone le esigenze, affiancandoli e accompagnandoli, facilitando il loro lavoro. Favorire l’incontro, quindi, tra le domande espresse da un determinato bacino di utenti e i documenti che potrebbero contenere le risposte a quelle domande. In quel volume provavo a delineare un modello di biblioteca di qualità, il cui stile di servizio fosse fortemente interattivo, costruito sulla ricerca di un equilibrio tra la massima personalizzazione e un livello standard garantito a tutti e a ciascuno, così come sulla necessità di tenere insieme la dimensione locale – vale a dire la capacità di aderire fortemente alle esigenze di una specifica comunità di utenti, come i cittadini residenti in una località, gli studiosi di una disciplina, le persone accomunate da una passione o un interesse – e la dimensione universale cui aspiravano gli eruditi e i bibliografi del Rinascimento. Torniamo, infatti, a quella contraddizione su cui poggia l’idea stessa di biblioteca, oscillando tra l’aspirazione a garantire l’accessibilità, senza confini, a tutta la ‘conoscenza registrata’ e l’obiettivo di incardinare i servizi della biblioteca in un contesto molto concreto, storicamente e geograficamente determinato.
Ma sarebbe velleitario vagheggiare una biblioteca perfetta, capace di soddisfare questi requisiti al livello più elevato. Per essere efficace quel modello necessita che gli utenti posseggano una ‘capacità d’uso’ dei servizi offerti e di ciò che è contenuto nei documenti che la biblioteca mette a disposizione. Per questo motivo ho sentito la necessità di andare oltre le biblioteche, di riflettere sulle pratiche di lettura, come forma di accesso alla conoscenza: da qui nacque nel 2010 un’altra pubblicazione, intitolata L’Italia che legge. In quel volumetto analizzavo i comportamenti di lettura, i cambiamenti intercorsi specie dal dopoguerra in poi, i fattori che influenzano la nostra propensione a leggere, cercavo di smontare alcuni luoghi comuni, riflettevo sugli effetti delle politiche di promozione.
Ma, più che altro, cercavo di afferrare il ‘senso’ che la lettura può avere nella nostra esistenza. Mi ero convinto, infatti, che la lettura non fosse solo un modo per occupare il tempo libero o uno strumento per accedere a determinati contenuti, ma che fosse essenzialmente una pratica formativa. La capacità di lettura si acquista attraverso l’esercizio, attraverso la ginnastica mentale che pratichiamo quando leggiamo. Sono abilità che si acquisiscono tramite la consuetudine con i libri, dedicando tempo e spazio alla lettura, non avendo fretta e mettendo alla prova la nostra ‘pazienza cognitiva’. Oggi tutto ciò che facciamo è all’insegna della velocità, ma per leggere un libro occorre lo stesso tempo che impiegavamo secoli fa. Viene da chiedersi, allora, se questa pratica sia compatibile con gli stili di vita che la società contemporanea ci induce ad assumere. Pensate a cosa è accaduto negli ultimi dieci anni: dapprima la connessione mobile e costante ha riempito tutta la nostra giornata, privandoci di quel ‘tempo vuoto’ che fino a poco fa ci rimaneva, per esempio, quando non eravamo né in casa né al lavoro ed eravamo sganciati dalla rete; nell’ultimo anno lo smart working ha annullato qualsiasi distinzione tra lavoro e mura domestiche.
Gli indici statistici sulla lettura in Italia, piuttosto desolanti, mi hanno indotto a chiedermi quali fossero i costi sociali che tutti noi paghiamo per le scarse competenze di cui soffrono giovani e adulti nel nostro paese. Era il 2014 e arrivò un altro tascabile Laterza: Senza sapere: il costo dell’ignoranza in Italia. In quel volumetto si parlava dello scarso livello di istruzione degli italiani, in coda alla classifica dei paesi OCSE per numero di laureati e diplomati, e il conseguente scarsissimo livello di competenze linguistiche, espressive, logiche. Del resto, un paese che da decenni riduceva le risorse per scuola e università, che non investiva adeguatamente in ricerca e sviluppo e non incentivava gli investimenti privati, che ignorava totalmente il tema della formazione permanente, non poteva aspettarsi nulla di diverso. E invece, come aveva detto il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, intervenendo al Forum del libro del 2013: «un paese come l’Italia, povero di risorse materiali e in ritardo su molti fronti non solo economici, dovrebbe mirare a investire nella scuola e nella conoscenza non ‘sotto’ o ‘sulla’, ma ‘al di sopra’ della media degli altri paesi». In quel volumetto, prendendo a riferimento economisti come Amartya Sen e Elinor Ostrom, ho provato a dire qualcosa sulla conoscenza come diritto di cittadinanza, come strumento di inclusione sociale e di superamento delle disuguaglianze, e quindi come misura del benessere reale, ossia del ‘vivere bene’.
In che modo si possono raggiungere questi risultati, se non passando da un’idea di cultura come patrimonio consolidato da trasmettere a un modello partecipativo, in cui la capacità di comprendere e interpretare la realtà sia il frutto di una interazione? Diciamo che il cambiamento richiesto era da una concezione hardware della cultura a una concezione software. Uso non a caso questi due termini, perché la via interattiva per acquisire conoscenze e competenze «è forse la più congeniale alle dinamiche della società attuale, la società della Rete, dove la trasmissione avviene più in direzione orizzontale che verticale».
Non ricordavo di aver scritto la frase che ho appena citato e che ho ritrovato qualche giorno fa, quando ho ripreso in mano quel libro per preparare questa lezione. Mi ha fatto un certo effetto, perché in quella frase c’era già un abstract perfetto del mio ultimo libretto, scritto insieme a Giorgio Zanchini e che si intitola appunto La cultura orizzontale. Uscito alla fine di febbraio del 2020, pochi giorni prima che l’esplosione della pandemia scaraventasse sulla rete tutte le attività umane, quel lavoro prova a descrivere il cambiamento che ci sta attraversando, e cioè come stiano cambiando le diverse forme di produzione e di partecipazione culturale nell’era del web (dallo studio all’apprendimento per immagini, dalla stampa quotidiana all’informazione, dalle relazioni interpersonali gestite attraverso i social network, dall’intrattenimento offerto da radio, televisione, cinema, e così via, fino ai videogiochi). In particolare, abbiamo cercato di analizzare le attività svolte dal pubblico giovanile, cercando di comprendere se atteggiamenti e pratiche collettive possono essere utilizzati per individuare connotati utili per leggere meglio l’identità plurale di un’intera generazione. A Zanchini e a me è sembrato di poter individuare proprio nella dimensione orizzontale l’elemento caratterizzante delle pratiche culturali in rete nei primi due decenni del XXI secolo ed è di questo che cerchiamo di dar conto nel libro. Inutile dire che quello che è accaduto dopo che il volume è arrivato in libreria e nei quattordici mesi che sono trascorsi da allora ha impresso un’accelerazione fortissima ai fenomeni che abbiamo studiato, rendendo ancora più forte e probabilmente irreversibile la tendenza che già si stava manifestando. Se l’orizzontalità la intendiamo come un accorciamento della distanza tra la produzione e la fruizione di cultura, siamo senza dubbio di fronte a un cambiamento di segno positivo. Più articolate le considerazioni da fare, invece, se si pensa alla enorme quantità di ‘contenuti’ cui possiamo accedere attraverso i motori di ricerca in modo facile e immediato – dove per immediatezza dobbiamo intendere sia la rapidità sia l’assenza di un’attività di intermediazione – ma col rischio di non sapere mettere in relazione tutti i frammenti di conoscenza che la rete ci offre. Preoccupante anche il sempre più diffuso e radicale sentimento di delegittimazione, se non di rabbioso rifiuto addirittura, verso le opinioni degli ‘esperti’ e verso il sapere specialistico. Va detto che questo atteggiamento nasce a volte per reazione a un abuso delle ‘competenze’, a una dittatura degli ‘esperti’, ma diventa molto pericoloso quando si traduce in un senso di onnipotenza e onniscienza, che poggia su poche, banali e non verificate notizie recuperate attraverso il web, e in base alle quali ci riteniamo esperti di qualsiasi cosa, convincendoci di saperne quanto basta.
Il problema è sempre lo stesso: la literacy, le competenze nella ricerca e selezione delle informazioni, la capacità di utilizzarle consapevolmente e in autonomia. Per il consolidamento e la piena affermazione di tutti gli importanti effetti positivi della ‘cultura orizzontale’, insomma, mantenere un po’ di verticalità non guasterebbe.
Mi rendo conto che gli anziani come me sono portati, di fronte ai cambiamenti, a fare un paragone tra prima e dopo, tra ciò che si guadagna e ciò che rischiamo di perdere. Per chi matura le proprie esperienze in un ambiente nuovo le questioni si pongono diversamente. Ma in un’occasione come quella odierna credo di potermi prendere la libertà di dire che «si profila all’orizzonte il pericolo di un impoverimento delle pratiche culturali e di una perdita di complessità che non può che preoccupare. Riteniamo che la cultura debba attivare processi di ‘discernimento’, e ciò vale a dire partire da quello che i sensi ci consentono di percepire e usare l’intelletto per distinguere, valutare criticamente, riflettere, comprendere, rielaborare attraverso un processo di progressivo confronto e arricchimento». Così si legge nelle pagine finali de La cultura orizzontale.
Ecco il punto a cui sono arrivato ora che è giunto il momento di 'appendere la cattedra al chiodo'.
Visto che ho scorso un po’ della mia autobibliografia, almeno di quella più recente, devo anche confessare una lacuna e dichiarare il motivo della insoddisfazione che avverto in questo momento. Vi dirò qualcosa su un libro che non ho scritto.
Ho il rammarico di non aver dedicato una riflessione approfondita, cioè una monografia – che, come direbbe l’ANVUR, è il prodotto per eccellenza di chi coltiva studi umanistici – al libro: al libro come oggetto e alla sua funzione, che è il punto di riferimento di tutte le cose che ho cercato di fare in questi anni, la realtà immanente, coessenziale con tutte le cose di cui abbiamo parlato finora. Ma cosa mai avrei potuto aggiungere io di nuovo e di intelligente a proposito del libro, che non sia stato già scritto? Ma oggi qualcosa voglio dire, e lo farò usando le parole di altri, che hanno descritto il libro e i processi che il libro innesca molto meglio di come potrei parlarvene io. Perdonerete se sgranerò un rosario di citazioni.
Del libro come oggetto mi colpisce la sua semplicità: come disse Umberto Eco, dialogando con Jean-Claude Carrière, «il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici: una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio». Un po’ di fogli scritti, ripiegati e cuciti insieme. Un’invenzione perfetta, che non può essere migliorata e che perciò resiste da secoli.
Al tempo stesso, il libro è un oggetto che racchiude enormi potenzialità: il libro a stampa è stato «ben altro che una realizzazione tecnica, comodo e ingegnosamente semplice, ma la messa a punto di uno degli strumenti più potenti di cui abbia disposto la civiltà occidentale per raccogliere il pensiero sparso dei suoi rappresentanti e conferire tutta la forza possibile alla meditazione individuale dei ricercatori, trasmettendola anche ad altri». Sono parole del grande storico Lucien Febvre. Se il libro è da secoli il principale veicolo attraverso il quale gli autori hanno potuto esprimersi e il pubblico ha potuto accedere alla conoscenza, ciò è dovuto al fatto che il libro è uno ‘strumento della complessità’. Una complessità che ha bisogno dei suoi spazi e dei suoi tempi, vale per il testo argomentativo e per il testo narrativo: un saggio che voglia presentare lo stato dell’arte su una questione, illustrare i risultati di una ricerca e dimostrare una tesi, indagarne a fondo i diversi aspetti, confrontare visioni alternative, proporre un’ipotesi che faccia avanzare le conoscenze sul tema trattato, necessita di un numero di pagine non piccolo; lo stesso si può dire per un testo narrativo, in cui descrivere compiutamente atmosfere e ambientazioni, indagare sui personaggi coinvolti nelle vicende che si raccontano e sui sentimenti che essi provano, guidare il lettore all’interno della storia, stimolando l’immaginazione e suscitando emozioni. La progressiva scoperta di tutto questo, attraverso la lettura, innesca processi cognitivi e di crescita e di arricchimento molto complessi, e di incredibile fascino: «La lettura profonda ci fornisce il veicolo migliore per viaggiare al di fuori del cerchio della nostra vita», scrive Maryanne Wolf. Chi legge, afferma Lina Bolzoni, «dà ospitalità a uno sconosciuto».
L’attività di lettura è impegnativa: il libro fa lavorare il lettore, che deve ‘entrarci dentro’. Infatti il libro, per vivere, ha bisogno di essere letto, altrimenti è inerte, muto. «Il libro è una relazione», secondo Borges. È il punto di incontro fra la scrittura e la lettura, azioni che si completano reciprocamente. I libri sono fatti per essere usati, recita la prima legge di Ranganathan, il padre della Biblioteconomia del Novecento. Tutti i maggiori intellettuali si sono cimentati con questo tema. Come sostiene Jean-Paul Sartre, il testo letterario è «una strana trottola che esiste quando è in movimento. Per farla nascere occorre un atto concreto che si chiama lettura, e dura quanto la lettura può durare. Al di fuori di questo, rimangono solamente i segni neri sulla carta. […] Leggendo si prevede, si attende. Si prevede la fine della frase, la frase seguente, la pagina successiva; si attende che confermino o infirmino le nostre previsioni; la lettura si compone di una moltitudine di ipotesi, di sogni seguiti da risvegli, di speranze e delusioni […]. Ma l’operazione dello scrivere implica quella di leggere come proprio correlativo dialettico, e questi due atti distinti comportano due agenti distinti. Solo lo sforzo congiunto dell’autore e del lettore farà nascere quell’oggetto concreto e immaginario che è l’opera dello spirito».
Leggere autenticamente e in profondità - ci insegna Virginia Woolf - significa aspettare che sul libro «si sedimenti la polvere della lettura».
Ma, parlando di libri, non possiamo ignorare le trasformazioni in atto e non interrogarci sull’evoluzione che l’attende e di cui non abbiamo visto ancora nulla. Gli attuali libri elettronici sono un’imitazione dei libri di carta, ne hanno la medesima struttura e forma, e utilizzano in minima parte ciò che le tecnologie consentirebbero di fare. Agli e-book manca solo la carta per uguagliare i libri analogici. Avremo davvero dei libri elettronici solo quando essi saranno concepiti in ambiente digitale.
Un’ipotesi è stata avanzata da un altro grande storico, americano questa volta, Robert Darnton, che pensando alla monografia storica – ma può valere per qualsiasi pubblicazione che voglia dar conto dei dati e delle fonti utilizzate e che si proponga di contestualizzare i risultati di una ricerca – ha immaginato una ‘monografia a strati’ così articolata in sei livelli: «Lo strato superficiale (1) potrebbe essere un’esposizione sintetica del soggetto, da rendere magari disponibile in paperback. Lo strato successivo (2) potrebbe contenere versioni ampliate di diversi aspetti dell’argomentazione, disposti non sequenzialmente, come in una narrazione, bensì come unità autonome che vanno a inserirsi nello strato superficiale. Il terzo strato (3) sarà composto dalla documentazione, possibilmente di diversi tipi, ciascuno introdotto da un saggio interpretativo. Un quarto strato (4) potrebbe avere un carattere teorico o storiografico, con una scelta di saggi e di analisi preesistenti sull’argomento. Ci potrebbe essere un quinto strato (5) a carattere didattico, con suggerimenti per discussioni in classe, con un modello di corso di studi e pacchetti di materiali didattici. E un sesto strato (6) potrebbe contenere le recensioni, la corrispondenza tra autore e editore e le lettere dei lettori; questo materiale potrebbe diventare un corpus di commenti che si accresce man mano che il libro raggiunge categorie di pubblico diverse».
Ne ho voluto parlare qui anche perché desidero guardare avanti e informarvi anche del progetto su cui l’arzillo settantenne che è di fronte a voi è impegnato in questi mesi. La messa a punto del prototipo di una rivista scientifica, edita in cartaceo e in digitale, che preveda fascicoli a carattere monografico, articolata su più livelli attraverso una piattaforma che contenga: la presentazione del fascicolo con editoriale, indice del fascicolo e abstract dei contributi; gli articoli; il loro arricchimento con documenti e bibliografia, fonti statistiche, link a risorse web, documentazione audio/video; un video di presentazione o intervista all’autore, o video illustrativo della realtà o dell’esperienza cui l’articolo si riferisce. Prevediamo che la piattaforma su cui risiederà la rivista ospiti anche un forum di discussione: per ogni tema monografico si organizzerà un dibattito in streaming con gli autori coinvolti e altri esperti. Ogni fascicolo quindi non solo sarebbe arricchito da vari materiali e documenti secondo la stratificazione più adatta, ma risulterebbe ‘aumentato’ dalla condivisione e dalla discussione. Da questa discussione potrebbero nascere anche i temi da affrontare nei fascicoli successivi. In questo modo è possibile far vivere gli argomenti affrontati sulla rivista per tutto il periodo che intercorre tra un numero e il successivo, fino a costituire dei veri e propri dossier tematici. Il progetto avrà anche una ricaduta nell’ambito della terza missione. Infatti, la disciplina che professo, la Biblioteconomia, è una scienza applicata, che si incarna nella ricerca nel suo peculiare dominio disciplinare, ma che è anche rivolta all’analisi della prassi biblioteconomica, avente come obiettivo quello di far crescere la riflessione teorica, la sperimentazione metodologica e le pratiche professionali nell’ambito dei servizi bibliotecari, documentali e di informazione. Scopo della sperimentazione è anche quello di rafforzare il legame tra la ricerca accademica in ambito biblioteconomico e la prassi realizzata all’interno delle biblioteche. Nei prossimi mesi pubblicheremo un primo numero sperimentale di questa rivista, e prevediamo di portare a compimento il nostro progetto entro l’anno, andando a regime.
In mezzo e intorno a questi concetti e a queste esperienze ci sono tante altre cose (dette, scritte, fatte in questi anni), forse troppe. Ma piangere sull’inchiostro versato, o sprecato, non serve a niente.
Trent’anni dopo quella prima lezione, cui ne sono seguite tante altre, forse sarebbe il caso di tirare le fila, se non proprio di tentare un bilancio. Ma siccome i bilanci sono sempre provvisori, sarà bene rinunciarci del tutto. Non ha senso fare il bilancio di un segmento, quello che ho percorso io, che è stato parallelo a quello di tanti altri con cui ho interagito, che viene dopo tanti altri da cui ho cercato di assorbire qualcosa, che fortunatamente sarà seguito da tanti altri che verranno dopo.
I riti di passaggio non possono essere ignorati, ma non vanno neppure enfatizzati eccessivamente. Vanno vissuti con sobrietà, anche se l’emozione non si può nascondere.
Ci siamo capiti, credo.
In questi trent’anni, ma anche prima, ce l’ho messa tutta, dando quello che sapevo e che potevo. Credo che questo sia il massimo obiettivo che ci si possa prefiggere: dare il massimo. Se poi questo massimo è modesto, non ci si può rimproverare nulla.
Molti anni fa, una mia allieva – che ora è una stimata collega (si dice così) di questa università – mi ha fatto il migliore complimento che si possa fare a un insegnante: «professore, lei - all’epoca ci davamo del lei - riesce a tirar fuori il meglio dalle persone». Sono molto orgoglioso di questo apprezzamento, ma credo che questo debba essere l’obiettivo del sistema pubblico dell’istruzione: non selezionare i migliori, ma dare a tutti l’opportunità di migliorarsi. Poi è ovvio che non tutti raggiungeremo gli stessi risultati, non tutti svilupperemo i nostri talenti nella stessa direzione e nella stessa misura. Ma bisogna cercare – lo dice molto bene Ranganathan, che ho già ricordato poco fa – di «aiutare ciascuno studente individualmente e di consentire a ciascuno di progredire con il proprio passo e per la propria strada».
Perdonerete questo accostamento ardito. Non so se davvero nel mio rapporto con gli allievi io sia riuscito a tirar fuori il meglio. Certamente, vale per me stesso. Da ogni incontro che ho avuto ho cercato di imparare qualcosa. Non lo scopro io e tutti noi ne abbiamo conferma nella nostra esperienza quotidiana, lo ha detto quasi duemila anni fa Seneca: «C’è un vantaggio reciproco [nell’insegnare], perché gli uomini, mentre insegnano, imparano».
Il mio percorso è stato illuminato da alcuni fari e facilitato da tanti incontri fortunati. Mi piacerebbe scandire questo itinerario descrivendone i passaggi e ricordando tutte le persone alle quali debbo tanto, a cominciare dagli insegnanti che mi hanno formato al Liceo Umberto I e all’Università di Napoli, fino ad arrivare ai colleghi e agli studenti con cui ho dialogato fino ad oggi. Se ce ne sarà occasione mi piacerebbe ricordare e ringraziare singolarmente tante persone, ma oggi non ce n’è il tempo. Lo farò in privato.
Consentitemi di fare soltanto un nome, per ricordare una persona che non c’è più, che forse è stato il più importante fra i tanti incontri importanti. E se lo cito non è perché io abbia la presunzione di rapportarmi a lui. L’incontro che più felicemente mi ha influenzato e mi ha fatto diventare quello che sono ora è stato l’incontro con Tullio De Mauro, un vero intellettuale civile, che mi ha insegnato ad andare oltre gli specialismi e, proprio a partire da quelli – che De Mauro coltivava a livello di eccellenza –, cercare di ampliare l’orizzonte, sviluppando una visione complessiva del rapporto tra individui, conoscenza e società, al di fuori dal perimetro in cui si racchiude uno specifico ambito di competenza. Sono convinto che la competenza di un esperto divenga vera conoscenza, acquistando un valore ben maggiore e raggiungendo una sfera più ampia, solo quando si riesce ad andare oltre gli specialismi. De Mauro mi fece scoprire il valore che la lettura può avere in questa chiave, la centralità che la lettura occupa nei processi di crescita individuale e collettiva. Ha origine da quell’incontro anche il mio impegno nel campo della promozione della lettura, la decisione di dar vita insieme ad altri amici (autori, editori, librai, insegnanti, bibliotecari) al Forum del libro e il mio impegno attuale nella Fondazione Bellonci.
Nei decenni passati e in tutti i luoghi in cui ho lavorato e nelle posizioni che ho occupato, ho sempre cercato di tirar fuori il meglio da me stesso, dare tutto quello che potevo e spero di essere riuscito a fornire un contributo, dicendo qualcosa di utile e di interessante, a chi ha avuto l’occasione di ascoltarmi o di leggermi in questi anni.
Se invece – e qui voglio citare le ultime parole del mio classico preferito – «fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta».
Si riproduce qui il testo, rivisto dall’autore, dell’ultima lezione accademica, tenuta in streaming il 28 maggio 2021. La registrazione della lezione è disponibile sul canale YouTube del dipartimento, all’indirizzo https://youtu.be/iKUpQzlZKsA.