Maurizio Ferraris
Dopo che si era giunti, se non sbaglio, al web 5.0, si è adottata un'altra partizione, che al momento comprende un Web1, un Web2 e un Web3. Il primo è il web delle origini, sino all'inizio del nostro millennio, un web fatto di e-mail e di siti anche belli, ma immobili, che potevano essere solo visti. Il secondo è il web che si è fatto avanti con i blog, i social e gli smartphone, ossia un web di piattaforme che si rivelavano accoglienti nei confronti degli utenti, e li rendevano attori consapevoli della comunicazione mentre li adoperavano come attori inconsapevoli della capitalizzazione che i loro comportamenti assicuravano alle piattaforme. Oggi siamo al Web3, caratterizzato dal "metaverso" e dalla blockchain. Di che si tratta? Conviene incominciare di qui.
Che cosa sia il metaverso è una domanda a cui, credo, nemmeno Zuckerberg saprebbe rispondere, e immagino che in questo periodo stia monitorando il web per trovare, come al solito, risposte e idee dagli utenti e dare un contenuto a ciò che ha al momento semplicemente annunciato e di cui sappiamo solo che vorrebbe offrire una esperienza più immersiva (cioè più redditizia in termini di acquisizione di dati) del web, riciclando i vecchi visori Oculus e adoperando nel mondo reale competenze che sinora erano state elaborate nel mondo dei videogiochi. Ciò spiega perché Microsoft abbia acquisito Activision Blizzard, una azienda di videogiochi, per 68,7 miliardi di dollari, e che Sony e Netflix si stiano impegnando nella medesima direzione.
Che cosa sia la blockchain, invece, è facile da capirsi. Si crea una catena di computer che registra un atto (un contratto, l'acquisizione o la cessione di un bene non tangibile, un documento di qualunque sorta ecc.) su più memorie non gerarchizzate, rendendo impossibile l'alterazione dell'atto stesso. Si tratta a rigore della estensione dell'uso, presente sin dal Paleolitico, del segnare una tacca, che rappresentava un atto, su due bastoni, uno conservato dal debitore (per esempio) e l'altro dal creditore (di nuovo, ad esempio), con la variante che oggi i bastoni capaci di registrare le tacche, cioè i computer, sono molto più numerosi. Ciò che però cambia, rispetto alle piattaforme, è che nel sistema della blockchain i dati restano nella tasca di chi li compie, che a rigore è l'unico che può farne qualcosa, giacché tutte le altre registrazioni, avendo avuto luogo su un gran numero di computer, sono congelate, e destinate a restare lì per l'eternità.
Osserviamo intanto una circostanza. I due eroi del Web3 sono accomunati solo dal fatto di essere nuovi, ma in effetti si pongono all'antitesi l'uno rispetto all'altro. Il metaverso è una superpiattaforma: facile da usare, attraente, ludica, immersiva, è concepita appunto per attrarre più utenti possibili con servizi efficaci, gratuiti e, se possibile, divertenti. La blockchain è una antipiattaforma: per usarla è necessario avere delle competenze e degli interessi specifici, e soprattutto ci si accede non per conoscere gli orari dei treni o il ristorante più vicino, ma per compiere delle operazioni, ossia con lo spirito con cui si va in banca, dal notaio o dal commercialista ma, si noti bene, senza l'assistenza di questi professionisti, con una sorta di home banking senza banca. Questo il quadro del Web3. In quel che segue vorrei illustrare il pro e il contro dei suoi due eroi, e poi spiegare perché in un contesto del genere delle piattaforme civiche, come quelle costituite da una biblioteca, potrebbero svolgere un ruolo di importanza capitale.
I caratteri del metaverso sono qualitativamente gli stessi di una piattaforma tradizionale e consistono in quello che ho definito "plusvalore documediale". Mentre gli utenti cedono gratuitamente i propri dati in cambio di servizi, le piattaforme divengono proprietarie dei dati degli utenti e soprattutto dei loro preziosi metadati, che, aggregati con i dati di altri milioni di utenti (e si tratta di una operazione alla portata esclusivamente delle piattaforme), possono venire monetizzati in termini di vendite pubblicitarie, profilazione, automazione. Non insisto su questo punto, su cui tornerò e su cui del resto c'è ormai una diffusa consapevolezza, e mi concentro invece sui rischi della blockchain come antipiattaforma.
La prima caratteristica saliente è la "tecnicità". Mentre per navigare su un sito non occorrono né competenze né motivazioni, quando si accede alla blockchain lo si fa per un motivo e disponendo di competenze tecniche in mancanza delle quali non si può fare niente. Questa caratterizzazione suggerisce che la maggior parte delle azioni compiute dalla blockchain saranno, almeno sino a che non si troveranno delle interfacce davvero semplici, mediate da tecnici.
La seconda caratteristica, ben più cruciale, è la "privatezza". Ci siamo accorti da tempo che la privacy non è un problema perché alle piattaforme commerciali importano i dati aggregati, non quelli individuali (interessanti per gli stati che, come la Cina, diventano pericolosi quando sono controllori di piattaforme). La blockchain costituirebbe, invece, un elemento di privatizzazione del dato che ridurrebbe il potenziale universalistico e umanitario del web: proprietari dei dati, gli utenti li terrebbero per sé e proverebbero a investirli individualmente, annullando le possibilità di un uso benevolo e benefico del web, che è tale solo nella misura in cui si tratta di autorizzare l'investimento di dati che, come quelli dei social, sono nostri, ma non in nostro possesso perché vanno richiesti alle piattaforme.
La terza caratteristica è la "semanticità". Sulla blockchain non si producono dati sintattici, i metadati che costituiscono il grande capitale del XXI secolo, ma soltanto dati semantici, i risultati di atti coscienti e di per sé significativi, e questo per l'ottimo motivo che la blockchain salva esclusivamente ciò che noi vogliamo che salvi – dunque non la nostra geolocalizzazione, i nostri colpi di tosse, il nostro sgranare gli occhi, bensì l'acquisto di un non-fungible token o una transazione in criptovaluta. Questa caratteristica, da sola, suggerisce che molto difficilmente la blockchain potrà sostituire le piattaforme tradizionali, che sono molto moderatamente interessate alle nostre idee e ai nostri atti deliberati, e puntano sui nostri comportamenti e sentimenti.
Il perché di questa preferenza per le azioni a scapito delle idee, e del preterintenzionale rispetto all'intenzionale, è presto detto. Ricordiamo un punto: la grande novità apportata dal web consiste nel trasformare il consumo e più generalmente il comportamento in un valore capitalizzabile. Mangiare, leggere, camminare o giocare, viaggiare o dormire erano atti che non lasciavano traccia, mentre oggi producono una enorme quantità di dati, che correlati con altri, nostri e soprattutto altrui, consentono delle capacità predittive senza paragoni con tutto quello che abbiamo conosciuto sinora.
Assistiamo, così, a quella che i nostri avi avrebbero chiamato "frattura epistemologica". Tradizionalmente si era considerata la natura come lo spazio della regolarità e la cultura come l'ambito dell'imprevedibilità. Oggi accade il contrario: la fisica quantistica descrive la natura come un ambito in larga misura aleatorio, mentre i big data trasformano l'umanità in un campo prevedibile quanto le fasi lunari. In fondo, è l'estensione di una vecchia esperienza: chiunque, entrando alle otto di sera in un ristorante, sarebbe in grado di formulare la previsione "tra quattro ore questo posto sarà vuoto" (a meno che sia il 31 dicembre); solo che adesso gli ambiti di prevedibilità sono enormemente più estesi, e questo spiega il valore inestimabile di questo nuovo capitale.
Se infatti la moneta ci permette di sapere qualcosa del mondo, e precisamente il valore che si attribuisce a certi beni o servizi, e se la finanza ci permette di stabilire quali sono le aspettative che il mercato ha rispetto a eventi futuri, il capitale documediale offre molto di più. Consente infatti, come ho appena detto, la predizione veridica dei comportamenti umani (profilazione), che prende il posto dell'azzardo borsistico, la loro replica fedele per opera di meccanismi (automazione) e la conoscenza esatta del consumo di una certa pagina o notizia, indispensabile per una vendita pubblicitaria efficace.
Qui si apre il problema politico. Di questo capitale, al momento, traggono vantaggio solo le piattaforme commerciali, fabbriche che non pagano i loro operai, e che diversamente dai loro operai (che non si lamentano perché per fortuna non faticano e non si annoiano, il che però gli impedisce di vedere il problema) diventano proprietarie dei dati, e hanno gli strumenti per confrontarli, capitalizzarli, finalizzarli e a rivederli indefinitamente con contrattazioni individuali.
Le caratteristiche negative delle piattaforme commerciali (che ovviamente sono in parte controbilanciate dai loro enormi meriti sociali) sono di vario tipo: la capitalizzazione esclusiva, solo in parte minima compensata da interventi umanitari e sociali, spesso con secondi fini. L'anomia, visto che le piattaforme stipulano con i loro utenti dei contratti senza limiti temporali, che costituiscono non solo un unicum contrattuale, configurando un accordo che si estende alla cessione dell'intero divenire di un corso di vita. L'individualismo, giacché quelli che si contraggono tra piattaforme commerciali e utenti (il più delle volte inconsapevoli delle conseguenze dei loro contratti) sono impegni che vincolano l'individuo e spesso pregiudicano delle caratteristiche, come la trasmissibilità intergenerazionale.
Per una azione efficace occorre cogliere la portata della trasformazione in corso. Se, come tradizionalmente è avvenuto in situazioni di automazione rudimentale, lo scopo del lavoro è compiere azioni che possono essere vantaggiosamente compiute dalle macchine, è evidente che la crescita dell'automazione coincide infallibilmente con la scomparsa del lavoro, perché, a parità di condizioni, una macchina è sempre più vantaggiosa di un umano, per ottimi motivi: non si stanca, non muore, non ha diritti e non va in pensione. Ma, fortunatamente, il lavoro non è solo questo. Non più appendice della macchina, l'uomo lavora in quanto umano, ossia anzitutto in quanto portatore di bisogni, ossia di ciò che una macchina non avrà mai; di scopi, perché una macchina va anche su Marte, ma solo se glielo chiediamo noi; e di interessi, perché siamo noi a decidere se una macchina serve o no. Non più interessante né utile come produttrice di beni, l'umanità trova una diversa centralità come produttrice di dati, cioè appunto come "produttrice di valori".
Gli umani non sono più interessanti come parti di un meccanismo; sono, sempre più, interessanti come umani, ossia come portatori di interessi, bisogni, comportamenti che insieme istruiscono l'automazione e finalizzano la produzione (i cui destinatari, non dimentichiamolo, sono esclusivamente umani). Non più impegnati nella produzione dei beni, gli umani divengono così produttori di valori, ossia determinano, con le loro peculiarità, il senso, la necessità, e dunque il valore della produzione. Questa creazione di valori, prima del web, era prerogativa di agenzie molto determinate: la politica, la religione, l'arte, la finanza. Non poteva che essere così sia perché gran parte della umanità era appunto impegnata nella produzione, sia perché i comportamenti umani, non essendo registrati sul web, non lasciavano traccia, ossia non innescavano il meccanismo di capitalizzazione dei dati che arricchisce le piattaforme. Bisogna dunque riconoscere il cambio d'epoca con una serie di azioni che rispondano ai bisogni del presente. In particolare, due azioni appaiono di particolare urgenza se vogliamo far fruttare a vantaggio della intera umanità questo enorme capitale invisibile, i dati e la produzione di valore che ne consegue, che il web ha introdotto nel mondo trasformando in documenti comportamenti che in precedenza non lasciavano traccia.
Occorre una ricomprensione del sistema dei valori (politica, religione, arte ecc.) in un sistema allargato, una economia generale in cui si manifesti la permeabilità tra i valori umani e quei tipi peculiari di valori che sono i valori finanziari. Uscendo dalla dittatura del PIL, si comprenderà che un museo, una biblioteca, un bene culturale, una scuola o una università non costituiscono solo una preparazione alla vita, o la sua domenica, ma producono un valore ben superiore (perché raffina i bisogni dell'umanità invece di limitarsi a soddisfarli) a quello di una fabbrica, che si può senza rimpianto lasciare ai robot. Non dimentichiamoci infatti che, come sosteneva Karl Polanyi, l'economia di mercato è una invenzione recente e che la produzione del valore è molto più antica. Le tavolette di scrittura cuneiforme dei Babilonesi sono il primo passo di un processo che condurrà alle banche e alle piattaforme, ossia annotano dei dati che potranno essere adoperati nel futuro per gli scopi più diversi, alcuni dei quali del tutto imprevedibili, come appunto farci conoscere la cultura babilonese. Ossia avviano un processo di capitalizzazione.
In questo quadro, invece di limitarci all'invettiva contro lo sfruttamento dei nostri dati da parte delle piattaforme commerciali, spesso trascurando il motivo serio (il fatto che i nostri dati producano valore) a vantaggio di un motivo non serio perché non vero, la presunta sorveglianza, pensiamo a una alternativa, che è molto semplice, in punta di diritto e in una teoria che deve tradursi in pratica.
Non sta scritto da nessuna parte che l'unico esito della capitalizzazione sia il prevalere dell'economia nel senso più ristretto del termine. Diversamente dalle banche tedesche con la Grecia, i sovrani babilonesi, una volta saliti al potere, cancellavano i debiti contratti sotto il regno del loro predecessore, permettendo così la creazione di un valore (i debiti sono promesse e le promesse vanno mantenute) ma evitando la formazione di debiti irrisarcibili e di capitali parassitari. Non mi sentirei di raccomandare la soluzione babilonese per i nostri problemi, perché il suo assunto, e cioè la subordinazione della proprietà privata all'autorità di un sovrano, contrasta troppo pesantemente con la nostra idea di vita e di società, e sarebbe a giusto titolo concepita come una forma di tirannide. Invece che sull'abolizione del debito da parte del sovrano, credo che l'economia generale resa possibile dalla economia di piattaforma vada in un'altra direzione, quella appunto di un incremento della produzione di valore.
Come? Anche qui, e soprattutto, non sta scritto da nessuna parte che le uniche a sfruttare i nostri dati debbano essere le piattaforme commerciali, mentre sta scritto da una parte, e con molta chiarezza, nel Regolamento europeo 2016/679, art. 20, che gli utenti hanno diritto di chiedere i dati alle piattaforme. Gli utenti già oggi hanno diritto a richiedere i dati che producono sul web, ma si tratta di un diritto puramente formale perché dati isolati non servono a niente e non valgono a niente. L'art. 20 del GDPR ("diritto alla portabilità dei dati") è la base giuridica per questa capitalizzazione.
L'interessato ha il diritto di ricevere in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico i dati personali che lo riguardano forniti a un titolare del trattamento e ha il diritto di trasmettere tali dati a un altro titolare del trattamento senza impedimenti da parte del titolare del trattamento cui li ha forniti1.
Aggiungo un punto. La grande partita che si gioca in questo momento a Bruxelles (e che si chiuderà il 23 marzo) verte sulla possibilità per gli utenti di acquisire anche i dati sintattici, che sono quelli che producono l'autentica capitalizzazione. Si può immaginare che le grandi piattaforme sosterranno che i dati sintattici (i metadati) sono di loro esclusiva pertinenza, giacché senza il loro intervento non sarebbero generati, ma è facile replicare che non sarebbero generati neppure senza l'intervento degli utenti, data la dipendenza ontologica del web dalla umanità (una dipendenza che coloro che si ostinano a vederci come schiavi della tecnica non riescono a riconoscere).
Infine: contrariamente alle letture che vedono nell'economia digitale un prevalere del mercato sull'azienda, assistiamo al fenomeno inverso, il prevalere delle aziende (pochissime) sul mercato, che si manifesta solo nel costo delle inserzioni pubblicitarie, ma è invisibile nella profilazione e nella automazione che si avviano a essere le principali fonti di guadagno delle piattaforme. Questo prevalere rende opaco il valore dei dati, la cui esplicitazione non dipende dal mercato, e ricade in capo agli utenti e alle autorità di regolazione. Ridistribuendo nuovo valore senza toglierne alle piattaforme, si creerebbe un mercato dei dati che in questo momento manca, ciò che rende impalpabile e vago il valore prodotto. Quanto valgono le informazioni che permettono di far volare gli aerei a pieno carico grazie ai dati sui comportamenti dei passeggeri? Ecco una domanda a cui non si potrà mai rispondere se l'acquisto dei dati è il frutto di una trattativa privata tra una piattaforma e una compagnia. Se esistesse un mercato (e non potrà non esistere con l'ingresso di investitori di dati che siano diversi dalle piattaforme) ci sarebbe una domanda e un'offerta e, su quella base, si determinerebbe il valore.
Con questo processo si produrrebbe appunto nuovo valore, che prima era silente o inutilizzato, senza intaccare il valore già esistente, quello delle piattaforme. Ma la restituzione, come dicevo, è facile in teoria, complicata in pratica e, su base individuale, inutile, perché è, in grande, come conservare tutti i biglietti dei treni, gli scontrini dei negozi, le cartoline dal mare: cosa ce ne facciamo, a parte riandare ai bei tempi che furono e che interessano solo noi, quando va bene? Oltre che inutile, l'operazione appare sciocca, perché in quell'enorme pagliaio di like, di comportamenti, di bioritmi ci vorrebbe una pazienza inumana, quella di un computer, per trovare non dico un valore, ma un senso qualsiasi.
È qui che si tratta di compiere la seconda mossa, il passaggio, per così dire, dall'egoismo della biblioteca di Babele all'umanesimo della biblioteca di Abele, che richiede l'intervento di corpi intermedi vecchi e nuovi. Se quei dati non valgono per noi ma per le piattaforme è perché queste, aggregandoli con milioni di altri dati, riescono a renderli significativi, e dunque capitalizzabili, appunto in quanto fonte di proventi pubblicitari, profilazione e automazione. Se le cose stanno in questi termini, si tratta di creare delle agenzie di intermediazione, o rimodellarne di esistenti, capaci di aggregare i dati e di capitalizzarli per finalità socialmente utili.
Nessuno di noi, infatti, è costretto a cercare di capitalizzare individualmente i propri dati, perché – lo ripeto – ad aver valore non sono i dati individuali, ma quelli aggregati, a meno che la piattaforma non sia governativa, e dunque interessata a comportamenti individuali, o abbia caratteristiche specifiche. In effetti Amazon profila i comportamenti individuali, non per ragioni di polizia, bensì semplicemente perché la conoscenza degli stili di consumo individuali permette di inviare beni "non richiesti" dai clienti che però (questo l'aspetto interessante) solo nel 3% dei casi vengono rifiutati, dal momento che catturano con precisione chirurgica gli interessi delle persone profilate.
Del pari, anzi, meno che mai, nessuno di noi è costretto a improvvisarsi piattaforma aggregatrice chiedendo (a che titolo poi?) dati altrui. Più semplicemente, si tratterebbe di concedere il diritto di richiesta e valorizzazione dei dati a istituzioni di intermediazione (non statale, mi raccomando, perché diversamente dalle piattaforme gli Stati non si interessano solo ai dati aggregati, ma anche a quelli individuali), dell'investire sul mercato, in modo alternativo e concorrenziale rispetto alle piattaforme, e fruttuoso per il bene comune, non il denaro, ma i dati, ossia ciò che oggi è posseduto da metà dell'umanità, e in prospettiva dalla umanità intera, includendo dunque l'enorme massa di umani che non posseggono denaro. A raggiungere l'altra metà ci penseranno le piattaforme, desiderose di drenare dati; a far fruttare i dati non solo per il beneficio dei pochi ma per quello dei molti ci penseranno, come è giusto che sia, i molti, e tendenzialmente l'umanità intera, una volta che si sia compreso che il sempre sospirar nulla rileva.
In concreto, una banca è autorizzata dai suoi correntisti a mettere sul mercato, in forma anonimizzata, tanto i dati finanziari quanto i dati social, e i proventi vanno a sostegno del territorio e delle persone o imprese in difficoltà. Si tratterebbe della creazione di una piattaforma mutualistica che rinnovi con altri soggetti e capitali lo spirito che ha generato il credito cooperativo. Come per coloro che cent'anni dopo la costituzione delle banche di mutuo soccorso perché non avevano soldi e non potevano accedere al credito sono, proprio in forza di quella mutualità, usciti dall'indigenza. Ma ci sono nuove povertà, quelle di coloro che non hanno soldi e hanno solo dati, e che potrebbero intraprendere proprio attraverso i dati il percorso compiuto cent'anni fa attraverso i soldi. Senza dimenticare che il solo fatto di possedere un conto corrente bancario su cui sarebbero distribuiti parte degli utili della capitalizzazione dei dati di tutti i correntisti conferirebbe immediatamente uno status diverso a coloro che sino a un momento prima godevano solo dei vantaggi formali della democrazia (quando li godevano) e non avevano alcun vantaggio reale.
Del pari, si possono immaginare aziende sanitarie che si autofinanziano vendendo i loro dati sanitari aggregati, cioè anonimizzati, oltre che, previa autorizzazione, i dati social dei loro clienti (immagino che la correlazione sarebbe molto significativa) a Big Pharma (non c'è niente di male, certo non puoi venderli a un mendicante, e il rischio più concreto, che da tempo è realtà, è che Big Pharma se li faccia regalare). E così via per musei (aggregare i 4 milioni di dati dei visitatori del Museo Egizio con i loro archivi social ci direbbe molte cose sul mondo di oggi), scuole, università, biblioteche. L'inserzione di istituti di intermediazione e socializzazione dei dati permetterebbe così di promuovere nuove forme di benessere basate sulla capitalizzazione dei dati, con il riconoscimento di questo enorme valore in precedenza completamente invisibile perché monopolizzato dalle piattaforme, e prima ancora inesistente, perché non captato dal web.
Come abbiamo visto in apertura, ci sono buoni motivi per ritenere che la blockchain non potrà mai sostituire le piattaforme, ma diventa decisiva la presa di coscienza del fatto che la trasformazione in corso offre una occasione unica per adoperare, a vantaggio esclusivo della umanità nel suo insieme, l'enorme quantità di valore di cui essa è, insieme, l'origine e il fine. Le biblioteche, in particolare, potrebbero riqualificarsi tanto come una agorà fisica carica di valore e di valori, nel momento in cui si apre di nuovo la possibilità di una privatizzazione degli spazi per opera di antipiattaforme come la blockchain, quanto come uno spazio immersivo nello stile di metaverso, dove però la convergenza sulla piattaforma prenderebbe in tutto e per tutto i caratteri del lavoro dello spirito.
Insomma, se intendiamo il lavoro come fatica e noia, sembra proprio che stia finendo, senza lasciar rimpianti sinceri. Ma se parliamo di lavoro come produzione di valore, allora il bello comincia solo ora, purché ci si impegni a elaborare nuove categorie concettuali e nuove strategie progettuali, capaci sia di produrre capitalizzazioni dei dati umanitarie e umanistiche, sia di programmare per l'intera umanità una forma di vita, l'educazione, la cultura e il lavoro dello spirito, che conosca lo stress, la tristezza, l'insoddisfazione, che sono parti insuperabili della condizione umana, ma non la fatica, la ripetitività, le sveglie all'alba e gli incidenti sul lavoro, che sono conseguenze di una età del lavoro lunga (nasce con le civiltà agricole) ma non infinita, per fortuna.
Il punto è dirimente. Solo una società capace di creare nuovo valore invece di litigarsi le briciole del valore esistente può trovare le risorse educative e culturali, cioè anche le disponibilità finanziarie, per generare nuovi valori invece che piangere la morte dei vecchi. Le piattaforme hanno insegnato all'umanità come dar valore commerciale ai suoi comportamenti; tocca ora all'umanità insegnare alle piattaforme come dare valore culturale e morale a questo immenso capitale indicando la via per la transizione, lunga, ma in ogni momento reale, dall'homo faber all'homo sapiens.
Ecco perché il futuro dell'umanità, un avvenire che durerà a lungo, sarà caratterizzato da un peso crescente dell'educazione, proprio come gli ultimi diecimila anni sono stati assorbiti dalla produzione. Le risorse ci sono, solo si tratta di riconoscerle e di investirle con una cooperazione tra valore economico, valore culturale e valore morale capace di creare un circolo virtuoso. Creando così una scienza nuova in cui gli spiriti animali dell'umanità, presenti da che umano è umano ma oggi trasformabili in dati e in valore, costituiscano una risorsa che ci accompagni nel passaggio infinito, ma doveroso e definitorio della natura umana, dalla scimmia all'uomo, dall'odiatore al formatore, e magari anche dal pensatore negativo al pensatore propositivo.