di Giovanni Solimine
Ho già tentato, non molto tempo fa e su questa stessa rivista, un esercizio di analisi delle trasformazioni in atto nei comportamenti di lettura1. In quella occasione sottolineavo alcuni elementi caratterizzanti della fase che stavamo vivendo a metà del 2018, al momento in cui scrivevo. Mi soffermo ora, ricordandoli qui in rapida sintesi, solo su alcuni aspetti utili a riprendere il discorso che qui intendo sviluppare:
Le considerazioni sopra riportate, e riferite a un paio di anni fa, riguardavano i comportamenti di lettura, i consumi culturali in senso più ampio, l’uso e la pervasività delle tecnologie. Si tratta del risultato di trasformazioni profonde, che possiamo datare almeno all’ultima quindicina d’anni (nel 2004 nasce Facebook e l’anno successivo YouTube, il primo smartphone è del 2007, il Kindle del 2009, stesso anno in cui nasce WhatsApp, l’iPad arriva nel 2010) e che hanno avuto un impatto notevole sull’uso e sulla percezione del tempo, anche in rapporto a una esplosione dell’offerta di prodotti e servizi, culturali e non. A tutto ciò si è aggiunta una forte e improvvisa accelerazione del trasferimento sulla rete di molte attività umane a causa delle misure di distanziamento imposte dalla pandemia da coronavirus a partire dall’inizio del 2020.
Gli effetti di questi eventi sono cumulativi e moltiplicativi, per cui la loro portata è paragonabile al passaggio in un mondo diverso e sconosciuto, che finora sembrava poter essere descritto solo dalla fantascienza. Personalmente, ho vissuto la stessa sensazione che provai quando vidi Stargate3 al cinema.
Non dobbiamo pensare necessariamente a scenari apocalittici e angoscianti: la paura nei confronti della crisi economica, che non va confusa con le sfide lanciate dalle tecnologie digitali, ci impedirebbe di individuare il cammino del cambiamento che va intrapreso, e che andava intrapreso comunque, anche se non ci fosse stata quest’ultima pesante mazzata. Dall’analisi di ciò che è accaduto nel corso dell’ultimo ventennio emergono tante criticità, ma anche alcuni segnali che, se esaminati con attenzione, potrebbero indicare la strada da seguire.
Cominciamo dall’inizio, non senza aver premesso che lo scopo di queste noterelle è unicamente quello di porsi qualche interrogativo, e non di avanzare ipotesi da dimostrare; tutt’al più, nella parte finale si cercherà di abbozzare, forse in modo ancora acerbo, qualche direzione in cui cominciare a lavorare per poter cercare le risposte.
Già prima del cambio di secolo il trend mostrava alcune difficoltà. Dopo la crescita considerevole degli indici di lettura (si partiva da un 16,6% della popolazione che nel 1965 leggeva almeno un libro all’anno) che aveva caratterizzato la seconda metà del Novecento, parallelamente all’aumento dei livelli di istruzione e all’evoluzione della società italiana, l’ultimo decennio del XX secolo aveva visto oscillazioni intorno a valori compresi fra il 37 e il 38 per cento: il dato era stagnante perché non erano state minimamente intaccate le cause che frenavano una possibile crescita, come le difficoltà di lettura e comprensione in gran parte della popolazione adulta4 o i venti punti percentuali di ritardo che distanziavano le regioni meridionali rispetto alle aree più sviluppate del Paese; tutte le differenze – di genere, fascia d’età, area geografica, condizione socio-culturale - si sclerotizzavano nel tempo e in alcuni casi tendevano addirittura a radicalizzarsi; senza soffermarsi ora su un’analisi di dettaglio5, si può dire che la gracilità del ‘sistema del libro e della lettura’ aiuta a comprendere come esso non sia stato in grado di affrontare la sfida dell’innovazione.
Non ho competenze massmediologiche né dispongo di evidenze scientifiche da portare a supporto di ciò che sto per dire, ma azzardo qui un’ipotesi. Lo storico gap nei processi di alfabetizzazione e scolarizzazione, e conseguentemente negli indici di lettura, accusato dall’Italia nei confronti del resto dell’Europa ha fatto sì che i mezzi di comunicazione di massa, la televisione in primis, abbiano avuto da noi una funzione sostitutiva rispetto alla lettura come strumento per l’apprendimento, la formazione, l’informazione, l’intrattenimento, mentre in altre nazioni la comunicazione audiovisiva è andata ad aggiungersi a ciò che già prima veniva veicolato dalla lettura e che la lettura ha continuato ad offrire. A conforto di questa ipotesi posso portare solo i dati sulla ‘dieta mediatica’ dei nostri connazionali, secondo i quali chi già legge utilizza intensamente anche altri strumenti, mentre è molto elevato il numero di chi guarda solo la TV e la utilizza come unico veicolo anche per l’accesso alla cultura.
Infatti, anche se il livello di istruzione continuava a crescere, la correlazione e gli effetti sugli indici di lettura si è andata attenuando: nel primo decennio degli anni Duemila il numero di laureati in Italia è cresciuto del 36% e quello dei lettori solo del 9%.
Su questo stato di cose, già di per sé complicato, sono intervenuti due eventi importanti, finendo col sovrapporsi e col confondere anche gli elementi di analisi, che qui proverò a districare.
Il primo evento possiamo datarlo all’inizio del nuovo millennio, quando comincia a diffondersi la connessione dati in mobilità, cui già aveva fatto da battistrada la telefonia cellulare modificando la prassi della comunicazione interpersonale. La ‘tascabilità’ e ‘portabilità’ di internet ha radicalmente mutato il nostro rapporto con la rete, il cui uso fino a quel momento era subordinato alla scelta deliberata di ‘volersi collegare’, accendere il computer, e così via. Il risultato è sotto ai nostri occhi: oggi oltre 4 miliardi degli abitanti del pianeta (quasi 46 milioni in Italia) accedono alla rete da dispositivi mobili e il 53,3% del traffico passa attraverso gli smartphone (in Italia prevale ancora l’accesso da rete fissa, ma gli smartphone veicolano già circa il 40% del traffico)6. Una delle conseguenze di questa connessione perenne e di questa accessibilità illimitata, favorita dalla diffusione delle tariffe flat praticate dagli operatori, è stata la totale occupazione del nostro tempo, il riempimento di quasi tutti i vuoti che in passato si venivano a creare durante la giornata, quando non eravamo né a casa né al lavoro. Il progressivo diffondersi della connessione in mobilità, iniziata tra 2003 e 2004 con le frequenze UMTS7, ha fatto diventare del tutto naturale l’uso del web come primo e a volte unico canale per l’accesso all’informazione e alla conoscenza.
Qualche anno dopo, ma quando gli effetti pervasivi di questa consuetudine a collegarsi alla rete sempre e ovunque già si stavano manifestando, il mondo intero è stato colpito da quella che potremmo considerare la prova generale di una pandemia: nel settembre 2008 fallisce a New York la società di servizi finanziari Lehman Brothers e, come un domino, nel giro di un paio d’anni i diversi settori industriali ne restano colpiti, crollano i consumi e tutte le economie vanno in crisi. Anche il campo editoriale ne subisce i contraccolpi: per l’Italia il 2010 segna col 46,5% la punta massima nella percentuale dei lettori, poi comincia il declino. E questo è il secondo evento da considerare.
Cosa è davvero accaduto da quel momento in poi va analizzato con attenzione, se vogliamo cogliere il senso della svolta verificatasi nel corso di quest’ultimo decennio e anche per capire come si può fronteggiare la crisi prossima ventura.
Ma prima di passare oltre, va ricordato un terzo evento che – insieme alla migrazione di molti consumi culturali sulla rete mobile e agli effetti della crisi economica – potrebbe aver avuto un ruolo non secondario nel calo dell’acquisto e della lettura di libri. Mi riferisco alla l. 27/7/2011, n. 128 (detta anche ‘Legge Levi’ dal nome del parlamentare che la propose, onorevole Ricardo Franco Levi, ora divenuto presidente dell’Associazione italiana editori): quella norma, nell’intento di proteggere i piccoli editori e i librai indipendenti dalle politiche promozionali molto aggressive praticate dai grossi gruppi editoriali e dalle catene di librerie, introdusse il tetto del 15% agli sconti sul prezzo di copertina dei libri. Venne meno, quindi, la spinta fornita da alcune promozioni che dalle vetrine delle librerie richiamavano i lettori. Aggiungiamo pure che in questi anni non sono stati pubblicati grandi superbesteller internazionali che nei periodi precedenti (Il codice da Vinci fu pubblicato in Italia nel 2004, i volumi della saga di Harry Potter uscirono tra il 1997 e il 2007, la trilogia delle Cinquanta sfumature apparve tra il 2011 e il 2012 e non copre, quindi, la seconda metà del decennio) avevano fatto entrare occasionalmente nel perimetro della lettura un pubblico ‘intermittente’, che si accosta ai libri solo in queste circostanze, per poi allontanarsene nuovamente in assenza di stimoli così potenti.
L’effetto combinato di questi diversi fattori, a mio avviso, ha offuscato il principale fenomeno verificatosi in quegli anni, rendendone più difficile la comprensione.
Contrariamente a quanto era accaduto in occasione di precedenti crisi economiche e riduzioni di consumi, che solitamente non avevano scalfito la propensione a leggere, a partire dal 2011 si cominciò a registrare un calo notevole della lettura e in soli tre anni scomparvero dal radar tre milioni di lettori: il fatturato del comparto editoriale scese in pochi anni da circa 3,5 miliardi di euro a 2,78 e la percentuale dei lettori passò dal 46,8 al 40,5 toccando nel 2016 la punta più bassa. Fino a quel momento il mercato del libro aveva sempre avuto un andamento anticìclico e non aveva risentito delle contrazioni che solitamente si manifestano nei periodi di congiuntura sfavorevole. L’interpretazione che è sempre stata data a questo andamento particolare si poggia sulla convinzione che la scelta di leggere sia determinata in prevalenza da dinamiche interne al settore librario e culturale, che influenzano i comportamenti del pubblico più della disponibilità di reddito da destinare all’acquisto di libri. Spesso si è sentito ripetere l’esempio che un lettore abituale, se deve stringere i cordoni della borsa, preferisce tagliare su altri acquisti piuttosto che rinunciare ad andare in libreria. Facendo riferimento a un’altra crisi globale, la crisi petrolifera di fine 1973 causata dalla guerra del Kippur, che nel biennio successivo fu percepita in tutta la sua ampiezza e gravità, possiamo vedere che nel decennio successivo il numero di libri prodotti cresce costantemente (passando dai 16.124 titoli stampati nel 1973 ai 20.560 del 1982; la produzione cresce anche in rapporto alla popolazione, passando dai 2,9 titoli ogni 10.000 abitanti editi nel 1973 ai 3,6 del 1982) e la quota dei lettori sulla popolazione raddoppia, passando dal 24,4% nel 1973 al 46,4 nel 1984.
Per restare nel campo dei fenomeni economici e prima di affrontare quelli sociali – e, quindi, per parlare dall’acquisto dei libri e non della loro lettura – possiamo forse dire che anche nell’ultimo decennio il mondo editoriale ha avuto un andamento anticìclico, anche se di segno negativo, e che in questa occasione il calo sembra soffrire di cause endogene più gravi, o non meno gravi, della congiuntura economica complessiva: in generale il livello dei consumi rallenta la sua crescita, mentre quello dei libri crolla, come è evidenziato dal grafico che segue. Per quanto la spesa delle famiglie per libri non copra tutto il mercato librario - mancano gli acquisti delle biblioteche e quelli di libri a carattere professionali effettuati dalle aziende, che però costituiscono una quota minoritaria del mercato - la tendenza sembra evidente e mostra che deve essere successo qualcosa di specifico lì dentro, nei comportamenti di consumo dei lettori. Infatti, mentre l’indice complessivo è passato da 100 (valore base del 2000) a 142,9, quello relativo all’acquisto dei libri passa da 100 a 82,7.
Figura 1 – Andamento della spesa per consumi finali delle famiglie in libri di varia ed educativi e incidenza sul consumo totale 2000-2018 (Andamento a base 2000 =100)
Fonte: Ufficio studi AIE su dati statistici della contabilità nazionale
Torniamo allora al calo dei lettori registratosi dal 2011 in poi. Pur senza ignorare il fatto che il tetto agli sconti, anche se non provocò un forte incremento dei prezzi, certamente fece venir meno l’effetto di richiamo che promozioni del 25% o con la formula del ‘3x2’ potevano esercitare sul pubblico, dalla tabella che segue possiamo notare che il decremento più accentuato si è verificato tra gli adolescenti. A fronte di un calo complessivo di poco più di sei punti percentuali nel periodo 2010-2016, che non è mai stato superiore ai tre punti all’anno e che a volte ha addirittura manifestato oscillazioni di segno positivo, tra le generazioni più giovani si è aperta una vera e propria voragine, raggiungendo addirittura uno scarto di oltre quattordici punti nella fascia d’età 11-14 e di dodici punti nella fascia 15-17, di gran lunga più pesante di quanto non è accaduto per le altre generazioni; da rilevare che nello stesso periodo tra gli over 60 la lettura ha tenuto o è addirittura cresciuta. Siccome i giovani erano - e, malgrado tutto, restano - coloro che leggono di più, il loro allontanamento dai libri ha inciso proporzionalmente in misura notevole nella determinazione del risultato complessivo.
Figura 2 – Persone di 6 anni e più che hanno letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali
Fonte: Istat, Indagine aspetti della vita quotidiana
È innegabile che ci sia stato un calo generalizzato dei lettori, e che anche il mercato editoriale abbia subito i contraccolpi della crisi complessiva, ma è del tutto evidente che il fatto più rilevante accaduto in quegli anni è stato un forte allontanamento dalla lettura di libri nei ragazzi di età compresa fra gli 11 e i 17 anni. Una prima considerazione da fare a proposito di questa così marcata contrazione degli indici di lettura nelle generazioni in cui si legge di più riguarda ciò che potrà accadere negli anni a venire: se si considera un inevitabile allontanamento dalla lettura dopo l’uscita dal sistema scolastico, costante che si è sempre verificata, si può prevedere che quando l’ondata di questa disaffezione raggiungerà le classi d’età in cui solitamente si è sempre letto di meno, assisteremo a un forte ridimensionamento del mercato librario. Ma c’è dell’altro: è un caso se questo crollo si è avuto proprio nella generazione maggiormente coinvolta nell’uso di internet mobile e dei social network? È un caso se in questi anni, malgrado l’incremento notevole di un’offerta che si è quintuplicata, non abbiamo assistito a un incremento della lettura di libri elettronici di dimensioni tali da riassorbire almeno in parte la riduzione delle vendite e della lettura di libri cartacei? Evidentemente la ‘migrazione di massa’ non avveniva all’interno del mondo librario, lungo la rotta che va dal libro analogico a quello digitale (appena il 6% degli italiani legge solo e-book), e non riguardava solo la veste esteriore e gli aspetti materici del libro (da questo punto di vista si sarebbe trattato di una evoluzione e non di una rivoluzione, in quanto la versione attuale del libro elettronico conserva molti degli aspetti del suo predecessore cartaceo, come la paginazione), ma si stava verificando uno spostamento dai libri e dalla lettura in direzione di altri consumi mediatici.
Forse non si è attribuito sufficiente rilievo a questi dati e ci si è accontentati della spiegazione più ovvia: calavano tutti i consumi e per questo motivo si compravano e leggevano meno libri. Come se si fosse trattato di una fase negativa all’interno di un ciclo che prima o poi avrebbe ripreso a girare nel verso giusto. Quanto questa interpretazione fosse semplicistica ci pare che lo confermino anche le risposte fornite dai non lettori e dai lettori deboli nelle numerose ricerche volte a indagare sulle cause del loro atteggiamento: ai primi posti troviamo sempre motivazioni che fanno riferimento alla mancanza di interesse o di tempo e alla preferenza per altri svaghi, mentre il costo dei libri non risulta fra le risposte più gettonate e solo nel 5% dei casi è la prima risposta. Anche la costante e progressiva riduzione dei prezzi di copertina praticata per alcuni anni dagli editori, tanto che il prezzo medio dei libri in commercio nel 2018 continua a essere di oltre due euro inferiore a quello del 2010, non ha sortito alcun effetto. Possiamo ritenere che le risposte fornite prevalentemente siano cumulabili, in quanto anche la percezione di non avere tempo da dedicare alla lettura può intendersi come un indice di scarso interesse e come una tendenza a occupare in altro modo il proprio tempo libero. Quanto ciò incida su una pratica come la lettura - che richiede concentrazione, tempi lunghi e ‘pazienza cognitiva’ - è evidente e va ricondotto al tema del ‘mercato dell’attenzione’, fenomeno ben noto agli studiosi9.
Tornando all’andamento degli indici di lettura nel secondo decennio del nuovo secolo, notiamo che negli ultimi anni ha cominciato a manifestarsi una ‘ripresina’, non sufficiente però a ritornare ai livelli precedenti. Non tutti gli indicatori, pur viaggiando nella medesima direzione, si muovono con lo stesso passo. Nel 2015 si è invertita la tendenza della spesa media delle famiglie per acquisto libri; il mercato della varia è cresciuto del 2,8% nel 2017 rispetto all’anno precedente, dello 0,7% nel 2018, tendenza confermata nel 2019 con un incremento del 3% circa (dati non definitivi); nel 2017 le vendite complessive hanno nuovamente superato i 3 miliardi di euro. Più modesto l’incremento della lettura: rispetto al 40,5% del 2016, l’indice è stato del 41% nel 2017 e del 40,6% nel 2018, recuperando in cifre assolute meno di un decimo dei tre milioni di lettori che si erano persi negli anni precedenti. Gli incrementi più sensibili, sia pure modesti, si registrano nella popolazione con un’età inclusa fra gli 11 e i 34 anni, ma su questo torneremo tra poco. Il fatto che i dati economici migliorino senza un significativo allargamento della base sociale della lettura, si spiega col fatto che in questi ultimissimi anni è leggermente aumentato il prezzo medio del venduto e finalmente, dopo quasi otto anni, è aumentato del 4% anche il numero di copie vendute.
In sostanza potremmo dire che si sono venduti più libri a chi già era lettore (si è accentuata una tendenza esistente da sempre: il 13,6% dei lettori e il 15,2% degli acquirenti generano il 40% del mercato in termini di copie comprate) e che si è recuperata una minima parte del pubblico giovanile.
Questo recupero è in buona misura dovuto a uno specifico intervento di sostegno della domanda. A partire dal 2016, infatti, il Governo mette a disposizione di chi compie 18 anni un ‘bonus cultura’ del valore di 500 euro, ridotti a 300 nell’ultimo anno, spendibile per l’acquisto di libri, registrazioni musicali o altri prodotti audiovisivi, biglietti per rappresentazioni teatrali e cinematografiche e spettacoli dal vivo, per l’accesso a musei, mostre ed eventi culturali, monumenti, gallerie, aree archeologiche, parchi naturali, per la frequenza di corsi di musica, teatro o lingue straniere. Complessivamente sono stati stanziati finora a questo scopo 1 miliardo e 270 milioni di euro, destinati a circa 2 milioni e mezzo di ragazzi, e si stima che all’acquisto di libri sia stata dedicata circa la metà delle somme disponibili.
Va dato atto che nella generazione raggiunta da questo provvedimento qualcosa si è mosso: tra i 18-19enni si è passati da una percentuale di lettori del 48,2 al 54,3%, mentre tra i giovani di 20-24 anni l’aumento è stato dal 44,7 al 47,8%, con una crescita in cifre assolute di circa centomila lettori. Non è molto, ma è meglio di niente. Sottolineo che se metà delle somme erogate a due milioni e mezzo di diciottenni sono state spese per acquistare libri, mentre i lettori in questa fascia d’età sono cresciuti così poco, ciò può voler dire solo due cose: che chi già leggeva ha letto qualche libro in più, oppure che queste somme sono state spese per acquistare libri scolastici o destinati ad altri componenti della famiglia. Perché questo provvedimento non ha inciso di più e non ha sortito tutti gli effetti che pure avrebbe potuto determinare? Perché la promozione della lettura richiede interventi sistematici e articolati, che coinvolgano tutti i soggetti della filiera, ciascuno per la propria parte di responsabilità: non basta regalare 500 euro a un diciottenne per trasformarlo in lettore. La scuola, le biblioteche, gli editori, i librai – magari sotto il coordinamento del Centro per il libro e la lettura – avrebbero dovuto progettare alcune azioni di accompagnamento, volte ad affermare il valore positivo del libro e a innescare un processo di ri-avvicinamento alle pratiche di lettura.
Un’altra misura che ha sostenuto il mercato librario è stata la ‘carta del docente’, anch’essa del valore di 500 euro, fornita agli insegnanti di ruolo per coprire spese di aggiornamento professionale, acquisto di libri, riviste, ingressi nei musei, biglietti per eventi culturali, teatro e cinema o per iscriversi a corsi di laurea e master universitari. L’iniziativa è partita anch’essa nel 2016 con la l. 13/7/2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti, conosciuta come ‘Buona scuola’) e ha previsto in questi anni uno stanziamento di oltre 380 milioni di euro annui. In questo caso si stima che il 70% sia stato utilizzato per l’acquisto di computer e tablet e circa un 15% sia finito nelle casse delle librerie.
Al di là dell’esattezza di queste stime – i due provvedimenti hanno suscitato anche parecchie polemiche e non sono mancati i casi accertati di somme destinate a scopi diversi da quelli previsti dal legislatore, così come c’è il fondato sospetto che in alcune occasioni il bonus sia stato merce di scambio da utilizzare per altre finalità – è innegabile che queste somme abbiano contribuito a fornire una boccata d’ossigeno a editori e librai, dopo anni di conti in rosso. Per esempio, si è registrato un forte incremento delle vendite nella manualistica universitaria e in un certo senso si può dire che ciò abbia anche ridotto il ricorso alle fotocopie, avendo così un effetto di contrasto alla pirateria, che sottrae alle librerie circa 250 milioni di euro di vendite ogni anno.
Comunque sia, all’inizio del 2020 il comparto editoriale dava qualche timido segno di ripresa, cui si accompagnavano dati che confermano il peso crescente che la rete sta occupando nei comportamenti culturali dei nostri connazionali: nell’ultimo quinquennio circa 2.300 librerie hanno chiuso i battenti, mentre il canale degli acquisti online, che nel 2010 copriva solo il 5,1% del valore delle vendite, è arrivato a rappresentare nel 2018 almeno un quarto del valore complessivo delle vendite del libro di varia, dato forse sottostimato in quanto non si hanno certezze sulle vendite di Amazon.
Quindi, al di là dell’andamento di alcuni indicatori, risulta del tutto evidente che le trasformazioni avvenute nell’ultimo decennio sono assai profonde, molto probabilmente irreversibili e in gran parte determinate dal modo in cui la rete incide sui comportamenti delle persone: vale per tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana, vale per la produzione e fruizione della cultura, vale ovviamente anche per la lettura. Il web non è un canale che si è aggiunto a ciò che esisteva già, ma è l’ambiente al cui interno si svolge la nostra esistenza10. Del resto, il wi-fi è nell’aria che respiriamo.
Cosa è accaduto nel mondo del libro e della lettura? È successo che la connessione in mobilità ha infilato nelle nostre tasche un universo di informazioni, saperi, distrazioni, bisogni e piaceri, potenzialmente infinito, che da un momento all’altro ha reso irrimediabilmente vecchio tutto ciò che esisteva prima, almeno agli occhi dei più giovani, di chi in quel ‘prima’ non c’era e vede solo il contesto in cui siamo immersi ora e il modo in cui oggi ci si relaziona, si cresce, si impara. Fatalmente, chi si è formato in un’epoca diversa è portato a fare un confronto tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ ed è esposto al rischio di lasciarsi prendere dalla nostalgia o di ritenere che ciò che stiamo guadagnando valga meno di ciò che potremmo perdere, ma possiede anche uno sguardo sufficientemente profondo e ampio per rendersi conto delle dimensioni del cambiamento che stiamo attraversando.
Si rischia di liquidare frettolosamente certi fenomeni e di coglierne solo gli strati più superficiali, sottolineando alcuni aspetti che giustamente destano preoccupazione11, pensando di doversi o potersi opporre a un cambiamento che invece va guidato e orientato, e al quale sarebbe inutile e sbagliato resistere.
Tornando all’oggetto delle riflessioni che si sta cercando di portare avanti in queste pagine, bisogna per prima cosa rendersi conto che lo spostamento che si sta determinando è duplice: da una parte riguarda i supporti e le interfacce, dall’altro i codici comunicativi. Più ancora che per i libri e la lettura, è eclatante la radicalità delle trasformazioni che hanno colpito i giornali, le riviste e l’accesso all’informazione. Non è questa la sede per approfondire una questione che meriterebbe una trattazione a sé, per cui possiamo cavarcela con uno slogan: ‘la notizia è diventata notifica’. Altra questione cui va fatto un rapido accenno è il peso crescente rivestito dalle immagini: si sta diffondendo un nuovo ‘stile conoscitivo’, fondato sulla simultaneità e sulla iconicità, dove la visione delle immagini diventa la fonte primaria per documentarsi e perfino per studiare, anche perché «La ‘fatica di leggere’ non può competere con la ‘facilità di guardare’»12.
Sembrerebbe perdere terreno tra i giovani la lettura per scelta. Molti di loro leggono solo se non possono farne a meno e per motivi scolastici (in genere il 16% degli studenti, il 18,1% nella fascia d’età 11-14, il 19% nella fascia 15-17, il 15,7% nella fascia 18-19) e questo dato la dice lunga sull’efficacia delle attività di promozione della lettura praticate nelle scuole: evidentemente, la lettura viene percepita unicamente come un’attività di studio o parascolastica e in molti casi non transita nelle abitudini da coltivare autonomamente nel tempo libero.
È in questo scenario e a fronte degli stili di vita, di informazione e di apprendimento che vanno affermandosi nell’era della rete che bisogna chiedersi quale sia il posto che potrà continuare a occupare il libro, inteso come principale strumento - lento, perché fatto di testi non brevi - per la circolazione del sapere che l’umanità utilizza da circa un paio di millenni.
La risposta non è scontata. Il libro può andare in crisi, non solo per le sue caratteristiche intrinseche appena ricordate e non tanto perché l’oggetto in sé risulti obsoleto o abbia perso appeal - lo scarso successo dei libri elettronici è la migliore dimostrazione di quanto il vecchio libro di carta funzioni ancora benissimo, almeno tra i lettori abituali - ma perché il modello di trasmissione culturale che esso incarna e la complessità che esso rappresenta potrebbero risultare incompatibili con un certo modo di intendere la rete e per la impazienza che essa ci trasmette. Ed è per questo timore di un impoverimento delle pratiche culturali che è lecito preoccuparsi.
Tom Nichols13 ha descritto bene una certa ‘cultura della rete’ che ci induce a ritenerci autosufficienti, rassicurandoci con la enorme quantità di contenuti disponibili, e per la facilità e la immediatezza (termine che in questo caso fa riferimento sia alla velocità che alla disintermediazione) con cui vi possiamo accedere. Il tutto è condito da una insofferenza nei confronti delle argomentazioni complesse (termine banalizzato come sinonimo di ‘complicate’) con cui si esprimono intellettuali, esperti, specialisti, cui la rete contrappone sempre il criterio della ‘popolarità’, cui Google ci ha educato col suo algoritmo PageRank. È il carattere autoritativo e verticale del libro come fonte e strumento di conoscenza a essere messo in discussione da questo approccio14.
Ma la rete ci mette anche in contatto con una quantità e varietà di conoscenze impensabile fino a poco tempo fa e offre a tutti noi l’opportunità di non essere soltanto utilizzatori passivi, ma soggetti attivi delle relazioni culturali e della produzione di nuovo sapere. Sta a noi saziarci con i frammenti e i dati grezzi, senza neppure riuscire a immaginare che si possa andare oltre l’enorme quantità di contenuti che i motori di ricerca restituiscono dopo una semplice interrogazione, oppure essere capaci di acquisire ed elaborare criticamente questi risultati. La rete è uno strumento fortemente interattivo, ma può anche farci impigrire e relegarci al ruolo di meri spettatori15. La differenza tra l’informazione e la conoscenza è presto detta: Peter Burke ha assimilato il termine ‘informazione’ a quanto è immediato, pratico e specifico, e quindi ‘crudo’, mentre la ‘conoscenza’ si costruisce attraverso un processo di ‘cottura’, elaborazione e sistematizzazione, che coinvolge la nostra capacità di pensiero16. Questa operazione presuppone il possesso delle competenze necessarie per selezionare, decodificare, organizzare e ri-contestualizzare l’enorme quantità di materiale disponibile in rete.
Sono competenze che si acquisiscono con lo studio e con l’esperienza e il libro può essere una potente scuola di complessità, perché ci insegna ad accostarci gradualmente a un tema o a una storia e a entrarvi in profondità. Vale per il saggio e per la monografia scientifica, che affronta in modo sistematico una questione, enunciando il tema indagato, presentando lo stato delle conoscenze fino a quel momento disponibili sulla questione, esponendo i risultati di una ricerca nei suoi diversi aspetti, argomentando una ipotesi interpretativa, confrontandola con visioni alternative; lo stesso vale per un’opera di fiction, che attraverso la narrazione descrive ambienti e atmosfere, presenta il carattere dei personaggi e le vicende che li coinvolgono, ci racconta le emozioni e i sentimenti che essi provano, guida il lettore all’interno della storia narrata.
Per questo motivo la lettura è sempre una pratica formativa, che non solo aiuta ad acquisire competenze linguistiche ed espressive o ad arricchire il proprio bagaglio di conoscenze, ma che fornisce strumenti per analizzare e ‘leggere’ la realtà che ci circonda, insegnandoci che la verità non è mai una sola, non è mai ‘semplice’, ma è ‘complessa’.
Al termine di questa divagazione, possiamo dire che i cambiamenti in atto potrebbero scardinare il sistema di accesso alla conoscenza cui eravamo abituati. Si tratta di una mutazione ambientale che modifica la natura stessa della comunicazione culturale.
I dati esposti in precedenza sul rapporto tra i giovani e la lettura di libri non ci dicono molto sulle altre forme di lettura che si sono propagate per via elettronica e dobbiamo ammettere che gli strumenti statistici solitamente utilizzati per studiare la lettura si rivelano sempre più inadeguati. È evidente che se per i giovani e gli adolescenti del XXI secolo i libri potrebbero non essere più – a differenza di quanto accaduto per le generazioni precedenti – il principale riferimento per lo studio e le pratiche formative, è altrettanto vero che il rapporto con la parola scritta rimane molto intenso: sappiamo che il 90% dei ragazzi di 15-19 anni adopera le funzionalità che consentono l’invio/ricezione di testi scritti (SMS, e-mail, messaggeria istantanea); si afferma una modalità di lettura veloce e discontinua che salta da un testo breve all’altro, scambiati attraverso chat e social network, diversa da quella lineare e progressiva, che veniva maggiormente praticata in passato e che è stata definita ‘lettura profonda’17.
Anche il social reading, che è senz’altro un fenomeno molto interessante e che unisce l’esperienza di lettura al desiderio di condivisione molto comune tra i giovani, resta una pratica diffusa prevalentemente solo tra i lettori abituali18.
Insomma, non abbiamo molti indizi sui tentativi di dare complessità all’uso del digitale, come se questo ambiente fosse ineluttabilmente il regno della superficialità, popolato da una generazione di giovani senza interessi e refrattari a ogni stimolo, appiattiti, o ‘sdraiati’, secondo la definizione stereotipata che ne ha dato Michele Serra19: non è così e la scuola sbaglia a non lavorare seriamente in questa direzione, rischiando in questo modo di far allargare ulteriormente un fossato già abissale tra la ‘cultura alta’ di cui vuole essere portatrice e le pratiche culturali degli alunni. Gino Roncaglia nega che la brevità e la frammentazione che oggi caratterizzano la testualità digitale siano un connotato intrinseco del web, al cui interno si può invece perseguire quella ‘cultura della complessità’, propria del libro e indispensabile per attivare processi formativi di qualità.
Contenuti e strumenti digitali – sostiene Roncaglia – entrano, e devono entrare, nella scuola, come già fanno nella vita di ciascuno. Una scuola che ignorasse il digitale sarebbe fuori della realtà. Questo non implica affatto però che qualunque strumento o contenuto digitale sia automaticamente buono perché digitale. Quella con cui abbiamo a che fare è una galassia estesa e variegata, include ottime cose ma anche molta spazzatura20.
Insomma, si può dire che all’interno dei processi formativi le pratiche che possono dare qualità alla lettura in digitale sono piuttosto limitate, anche perché manca negli insegnanti e negli studenti una specifica formazione a queste nuove forme di lettura, affidate alla sola spontaneità e a volte confinate a un regime semi-clandestino, anche perché la scuola non riconosce loro alcuna dignità e le tiene fuori dall’education, ritenendole una forma minore di entertainment.
Questa che abbiamo appena descritto era grosso modo la situazione alla fine di gennaio del 2020, quando il coronavirus ci ha scaraventato dall’altra parte dello stargate: la scuola, la lettura, l’informazione, le relazioni interpersonali, tutta la nostra esistenza si è trasferita in una dimensione diversa, in cui esistevano solo l’abitazione in cui eravamo confinati e le applicazioni di rete. Forse non si può dare a nessuno la colpa per l’impreparazione con cui abbiamo fronteggiato questa emergenza, però alcuni ritardi e alcune inadempienze hanno un’origine più remota e ciò non ha aiutato, producendo in molti casi un aggravamento delle disuguaglianze. Elenco qui alla rinfusa alcune criticità emerse durante il lockdown e che avremmo potuto risparmiarci se ci avessimo pensato per tempo: mi riferisco alle infrastrutture di rete e alla qualità delle connessioni domestiche, alla dotazione delle attrezzature presenti nelle case degli italiani, alla dimestichezza dei docenti e degli alunni con le metodologie della didattica a distanza, al tessuto delle librerie e delle biblioteche in certe aree del paese, ai servizi remoti offerti dalle istituzioni culturali, al servizio pubblico radiotelevisivo. Porto qualche dato a supporto: se consideriamo le famiglie con almeno un minore, tre su quattro non hanno un computer fisso, solo una su due dispone di un portatile, solo una su tre possiede un tablet, nel Mezzogiorno la quota delle famiglie senza nessun tipo di computer sale al 41,6%. Su alcune di queste criticità il Governo è corso ai ripari, con stanziamenti a favore delle scuole e delle università o con interventi per il diritto allo studio, in modo che le scuole possano acquistare attrezzature informatiche da mettere a disposizione degli studenti svantaggiati; a sostegno delle librerie sono andati 10 milioni come tax credit e per le biblioteche sono stati previsti 30 milioni da spendere in libri da acquistare presso le librerie presenti sul territorio. Altre misure sono previste per tamponare le varie forme di povertà educativa e di digital divide che sono emerse prepotentemente in occasione del lockdown. Ma non è questo il punto. In una situazione di difficoltà gravi e generalizzate non avrebbe molto senso stare a lamentarsi per la crisi di un comparto che se la passa più o meno come altri settori: alle case editrici, alle librerie, alle biblioteche è toccata la stessa sorte di tante altre attività e servizi e si è fatto ciò che si è potuto per fronteggiare gli effetti collaterali della pandemia e cercare di adattarsi a una realtà per la quale non si era attrezzati.
Ci si era addirittura illusi che la filiera del libro potesse trarre qualche vantaggio: con la gente chiusa in casa si sperava in un incremento della lettura21 ma a pensarci bene ciò non poteva accadere, se si considera che gli editori avevano dovuto bloccare l’uscita delle novità, che le librerie e le biblioteche erano chiuse, che l’e-commerce ha privilegiato la fornitura di beni di prima necessità, e che l’attività scolastica nella maggior parte dei casi non ha mai previsto la lettura come complemento della didattica, per cui i libri non potevano spuntar fuori all’improvviso in epoca di didattica a distanza. Gli e-book si sono venduti un po’ di più, la consultazione dei documenti elettronici e i servizi di digital lending hanno avuto un incremento22, le scuole dotate di una biblioteca scolastica digitale sono riuscite ad affiancare meglio le attività didattiche, alcuni librai e bibliotecari si sono fatti in quattro per mantenere comunque un rapporto con la propria utenza, il web era un pullulare di incontri con gli autori e dibattiti sulle piattaforme più disparate, ma sostanzialmente il mercato del libro e l’attività di lettura si sono fatte la loro brava quarantena. E il futuro non promette niente di buono: forse questa non sarà una priorità per la spesa pubblica, le amministrazioni centrali e locali non potranno investire molto sulle biblioteche, il sistema dei festival e delle attività promozionali avrà qualche difficoltà, la quota del bilancio familiare da destinare all’acquisto dei libri sarà modesta. Le istituzioni scolastiche potrebbero forse disporre di qualche risorsa aggiuntiva e speriamo che sappiano usarle efficacemente.
Non deve sorprendere, quindi, che in questa situazione di incertezza le associazioni di settore cerchino di difendere gli interessi delle categorie rappresentate e invochino «un piano di aiuti immediati che diano liquidità e sostegno a tutti i soggetti della filiera», come si legge nell’appello congiunto di AIB, AIE e ALI23. Giustissimo: in questo modo si darebbe una boccata d’ossigeno al settore, gli si consentirebbe di attraversare il deserto e, nella migliore delle ipotesi, si riuscirebbe a riportarlo alla situazione di partenza, di per sé già non esaltante, se le analisi interpretative e le previsioni che sono state delineate nelle pagine precedenti non sono del tutto sballate. Ma così facendo non si intaccherebbero in alcun modo le ragioni su cui poggiava una crisi profonda.
Continuando ad assumersi il rischio di parlare di un futuro che è molto nebuloso, possiamo facilmente prevedere che l’accelerazione che in questi mesi è stata impressa al trasferimento di molte attività umane sulla rete proseguirà e alcune nuove abitudini di vita che la pandemia ci ha imposto finiremo col mantenerle anche quando l’invito al distanziamento sarà meno inderogabile. Quindi le condizioni ambientali che nello scorso decennio hanno prodotto una ‘evoluzione digitale della specie’ non potranno che accentuare la loro capacità di condizionamento. Cambia il paradigma delle nostre esistenze, che si stanno totalmente ‘digitalizzando’, e qualsiasi tipo di offerta, anche per il libro e la lettura, va integralmente ripensata.
È in questo quadro di riferimento che dobbiamo immaginare un riposizionamento. Credo di non essere del tutto ingeneroso se affermo che nel dibattito sviluppatosi finora24 questo respiro progettuale ancora non si vede. Anche il new deal delle biblioteche25 è di là da venire. O, meglio, anche quando si leggono proposte intelligenti e idee affascinanti resta immutata la distanza fra questa elaborazione e una ‘cultura di governo’ che sembra assente: chi – istituzioni pubbliche e associazioni di settore – avrebbe il compito di orientarci lungo una traiettoria che porti dall’altra parte dello stargate sembra non avere un disegno adeguato o la capacità di affrontare un orizzonte temporale che guardi oltre l’emergenza. Servirebbe anche una capacità di astrazione, per cogliere l’essenza dei problemi e di conseguenza elaborare le soluzioni che potrebbero guidare la transizione, in modo da conservare quello che c’era di buono nel vecchio che rischia di essere spazzato via e di far prevalere gli aspetti positivi all’interno del nuovo che avanza.
Siccome non si può solo criticare e sottolineare le debolezze altrui, mi prendo la responsabilità di avanzare qualche esemplificazione su cui mi pacerebbe che si cimentasse qualcuno che ha il potere per trasformarle in ipotesi di lavoro ‘cantierabili’ o sostituirle con proposte migliori.
Partiamo dagli strumenti di cui già disponiamo e che non abbiamo ancora utilizzato, o che non abbiamo utilizzato pienamente. Nella consapevolezza che nessuna legge risolverà problemi così complessi, ma che una norma può aiutare a creare le condizioni per affrontare questioni di questo tipo, partirei dagli strumenti legislativi, che impegnano i decisori pubblici e che possono attivare le risorse necessarie. Sarebbe necessario però che le singole norme fossero riconducibili a un disegno unitario e organico e in questo gli operatori del settore debbono incalzare il legislatore e possono fornire una collaborazione preziosa. Finora sembrava che la politica italiana non potesse permettersi l’elaborazione di una strategia che andasse al di là di interventi di piccolo cabotaggio, ma forse il forte bisogno di ricostruzione che tutti avvertiamo potrebbe indurre a un cambio di passo.
Nel nostro campo disponiamo di uno strumento legislativo che possa fare da alveo in cui convogliare più di un provvedimento. La cornice alla quale penso è rappresentata dalla legge sulla promozione della lettura, entrata in vigore proprio nei giorni in cui il nostro paese chiudeva bottega per occuparsi dell’emergenza sanitaria. La l. 15/202026, prima firmataria l’onorevole Flavia Piccoli Nardelli, è giunta in porto alla fine di un lungo e tormentato iter, iniziato nel lontano 2013. All’art. 1, c. 1 la norma recita: «La Repubblica, in attuazione degli articoli 2, 3 e 9 della Costituzione, favorisce e sostiene la lettura quale mezzo per lo sviluppo della conoscenza, la diffusione della cultura, la promozione del progresso civile, sociale ed economico della Nazione, la formazione e il benessere dei cittadini». Mi sembra un buon punto di partenza, così come è da apprezzare che il Parlamento abbia approvato la legge quasi alla unanimità, con la sola astensione di Forza Italia, atteggiamento riconducibile alla contrarietà del Gruppo Mondadori - che fa il paio con la netta opposizione manifestata dall’AIE - all’abbassamento al 5% del tetto massimo dello sconto sul prezzo di vendita. Il disegno di legge era già stato proposto nella precedente legislatura e nel corso del suo iter è stato svuotato di alcuni elementi qualificanti e vi è stato aggiunto l’articolo sulla regolamentazione dello sconto, fortemente voluto da librai e piccoli editori. Su questo aspetto si sono concentrati anche i commenti apparsi sulla stampa e ciò ha fatto passare in secondo piano altre misure contenute nella norma, come l’avvio di un Piano nazionale d’azione per la promozione della lettura, i Patti locali per la lettura, gli interventi per il contrasto della povertà educativa e il rafforzamento delle biblioteche scolastiche, alcuni incentivi a favore delle librerie. Queste azioni vengono finanziate con stanziamenti assolutamente insufficienti (meno di 30 milioni di euro in tre anni), ma questa legge può essere un ottimo ‘attaccapanni’ al quale agganciare in una fase come quella che stiamo attraversando misure più incisive e risorse adeguate.
Un altro terreno d’azione, strettamente collegato a questo, è quello dell’uso del digitale nella scuola, tema venuto prepotentemente alla ribalta durante il periodo di sospensione delle lezioni. A seguito della legge sulla Buona scuola fu varato il Piano nazionale scuola digitale27, che, al di là degli investimenti in tecnologie, prevedeva una gamma, molto ampia e articolata nel dettaglio in 35 azioni, di interventi che avrebbero davvero potuto avere una valenza innovativa profonda nella vita quotidiana delle scuole. In questo caso le risorse disponibili erano ben maggiori e ammontavano a oltre un miliardo di euro in cinque anni. Non tutte le ciambelle previste sono riuscite col buco, ma ora si può e si deve rifinanziare e rilanciare questo piano, infilandoci dentro un vigoroso intervento per l’aggiornamento per gli insegnanti e una campagna di information literacy e media literacy per gli studenti di ogni ordine di scuola.
Il lavoro è tutto da cominciare, e questi sono solo due esempi, che assolutamente non esauriscono il ventaglio degli interventi possibili ma possono però prefigurare la strada da seguire per una sistematica azione di promozione della lettura adeguata alle necessità di oggi e per immaginare un uso consapevole del digitale all’interno delle attività scolastiche, all’interno di un quadro di ‘politiche giovanili’ da troppo tempo assenti nei programmi dei governi italiani.
Ma bisogna andare oltre, ripensando i vari aspetti delle dinamiche di lettura, che vanno dalla produzione e dall’offerta editoriale, alle modalità di circolazione e commercializzazione dei prodotti, fino ai contesti in cui si sviluppano le pratiche di lettura. È il modo di affrontare le questioni che deve fare uno scatto in avanti. Ci viene richiesto uno sforzo di immaginazione più coraggioso e più lungimirante, che trasferisca il mondo del libro e della lettura nella contemporaneità di un XXI secolo che davvero inizierà solo quando usciremo da questa emergenza. E qui debbo limitarmi a qualche suggestione, perché di più non so fare.
Credo che non basti sostenere la vecchia domanda e neppure espanderne il bacino con una trasfusione di nuovi lettori. Alla lunga, le cose non potranno cambiare se non ci sarà un rinnovamento anche nell’offerta. All’interno delle provvidenze per il settore editoriale servirebbe un robusto aiuto - che credo dovrebbe assumere la forma dei contributi a fondo perduto, necessariamente selettivi e calibrati sulla qualità delle proposte - alla progettazione e sperimentazione di prodotti editoriali innovativi. Sono convinto, infatti, che uno dei motivi del mancato successo dell’e-book, che in più di vent’anni non è riuscito neppure nei momenti migliori a superare la soglia del 20-25% del mercato, sia dovuto al mimetismo di cui si è accontentato: i libri elettronici sono troppo simili ai libri di carta e su questo terreno sono risultati perdenti. Nuove forme di produzione editoriale, che sfruttassero meglio le potenzialità delle tecnologie digitali e che per esempio inglobassero al proprio interno gli strumenti della multimedialità, della ipertestualità e della realtà aumentata potrebbero forse risultare più appetibili al pubblico delle nuove generazioni e aiutare il digitale stesso a maturare e a superare il rischio della frammentazione, acquisendo una sua propria complessità. Per fare un esempio di come potrebbe concretizzarsi questa idea di arricchimento dei prodotti editoriali, ricorro ancora una volta alla monografia ‘a strati’ ipotizzata da Robert Darnton, che mette insieme diversi livelli di approfondimento e di lettura con una possibilità di interazione tra autore e lettore28. La sperimentazione può spingersi anche oltre e andare a scovare i potenziali lettori che attualmente si nascondono sotto altre etichette e altri profili d’uso del digitale: si pensi, per esempio, a una forma di narrazione interattiva come quella dei videogiochi, che è meno lontana dalla lettura rispetto a quanto solitamente si ritiene.
I puristi storceranno il naso e ci faranno notare che questi non sarebbero ‘libri’ e che gli utilizzatori non sarebbero ‘lettori’: può darsi, ma non mi preoccuperei più di tanto. Del resto, l’evoluzione nel trasporto non è stata ottenuta migliorando l’efficienza delle carrozze a cavalli, ma inventando le automobili e gli aeroplani.
Accanto al mondo della produzione, forse dovrà cambiare qualcosa anche nella circolazione e nei modelli di business di chi vende i libri. Non sono convinto che il dedalo degli attuali meccanismi distributivi29 sia inestricabile, ma forse il suo superamento non sarà indolore e richiederà l’ideazione di circuiti totalmente diversi. Forse il futuro è lo streaming: non lo sto auspicando, ma sto limitandomi a prendere atto del fatto che questa modalità tecnica di fruizione abbia già rivoluzionato il mercato della musica e dell’home video, trasformando profondamente il rapporto fra ‘possesso’ e ‘accesso’ e tra ‘offerta’ e ‘uso’. Più saranno ricchi e complessi gli oggetti digitali e più sarà inevitabile ricorrere a questa modalità di fruizione. L’evoluzione dei consumi culturali in rete sta dimostrando che siamo sempre meno interessati a disporre in modo permanente ed esclusivo di un prodotto culturale, ritenendoci appagati dal poter accedere facilmente a grandi quantità di prodotti: c’è una stretta relazione tra la loro smaterializzazione e la perdita di senso del concetto di ‘acquisto’ e di ‘possesso’. Per secoli, le pratiche culturali degli individui erano fisicamente palpabili e potevamo vederne traccia negli ambienti in cui le persone vivevano: entrando in una casa, il modo migliore per farci un’idea della persona che avevamo di fronte era scorrere con lo sguardo il dorso dei libri presenti sugli scaffali o i quadri attaccati alle pareti, cui si sono poi aggiunti i dischi in vinile e i CD musicali, le videocassette e i DVD dei film. Siamo poi passati all’era del download e ora a quella della fruizione in streaming, in cui gli utilizzi culturali si consumano in modalità flat, con l’accesso illimitato a una enorme quantità di oggetti smaterializzati.
I più giovani, ovviamente, praticano questo sistema molto più degli adulti, forse anche perché meno attaccati all’idea di formare una propria collezione, ed è facile prevedere che per loro lo streaming diventerà non ‘un’ modo ma ‘il’ modo per utilizzare i prodotti culturali e di intrattenimento. Questo sistema è molto competitivo rispetto alle tradizionali forme di acquisto e fruizione (non occupa spazio, costa poco, consente un accesso praticamente illimitato a oggetti che non si deteriorano con l’uso) ed è perfettamente coerente con gli stili di vita cui la rete ci sta abituando, perché ci libera da qualsiasi vincolo costituito dall’offerta e dai palinsesti: possiamo formare di volta in volta la nostra collezione di riferimento e decidere a nostro piacimento inizio, pause e fine della visione, dell’ascolto o della lettura. È la vittoria dell’on demand. Radio e televisioni sono entrate pienamente in questa nuova era e ne sono state completamente stravolte: ormai, non ci si chiede più ‘cosa danno stasera in TV?’, ma ‘quale film (o quale spettacolo, o quale documentario) vigliamo vedere?’ e lo si sceglie all’interno di un’offerta sterminata di opportunità. Anche tutti i servizi commerciali vanno nella stessa direzione: cominciò Spotify con la musica e l’offerta si sta estendendo a ogni genere di partecipazione culturale in ambiente digitale. Recentemente, la rivoluzione è arrivata anche nel campo dei videogiochi.
Così come avviene per i consumi privati, veicolati attraverso i canali commerciali, lo stesso sta accadendo anche per quelli che passano attraverso i servizi pubblici: anche il concetto di collezione di una biblioteca sta perdendo di significato, con l’accesso a pacchetti di risorse elettroniche, alle piattaforme di digital lending o ai servizi di document delivery30.
Staremo sempre meno tra i nostri scaffali a godere delle nostre cose, ma le sfioreremo, sazi per la sola idea di avere a portata di mano non più soltanto i ‘nostri’ libri, i ‘nostri’ DVD o i ‘nostri’ dischi, ma tutti i libri del mondo e tutta la musica del mondo. Penso proprio che andrà così. Per questo mi aspetto - e qualcosa comincia a vedersi con i giornali, che finalmente cominciano a incrementare il numero degli abbonati alle versioni online - una maggiore diffusione di formule miste di servizi pay per view e tariffe flat, sul modello unlimited già sperimentato da Amazon31, particolarmente allettante per i lettori forti. Anche la proposta di ‘una Netflix della cultura’, lanciata dal ministro Franceschini, che pensa alla realizzazione di una piattaforma a pagamento per poter accedere alle iniziative culturali, va in questa direzione.
Un ancora più coraggioso sforzo di immaginazione andrà compiuto non da soli e non riguarderà unicamente il nostro mondo. Libri e lettura non si salveranno grazie a una sorta di autarchia, ma in relazione ai contesti ambientali che si determineranno e se in un nuovo ecosistema delle pratiche culturali ci sarà posto per la lettura. Il futuro vero lo disegnerà la classe dirigente, fatta non solo da chi ha la responsabilità del governo politico-amministrativo o dell’economia, ma da altre figure che concorreranno a disegnare il futuro – si pensi ai sociologi e agli urbanisti e a tante altre figure professionali –: anche dalle loro scelte dipenderà se nelle nostre vite future, al di là dello stargate, riusciremo a portare con un noi qualche pezzo della nostra vita analogica, e mi riferisco in particolare alla ‘forma’ delle città italiane ed europee, alle piazze e ai quartieri, al tessuto dei luoghi di incontro che hanno caratterizzato per secoli il nostro modo di intendere e di abitare le città. Perché è evidente che l’esperienza del distanziamento individuale lascerà segno profondi nelle abitudini di vita delle comunità locali, nella mobilità, nel modo di relazionarci al territorio.
Su quale infrastruttura si reggerà la nostra esistenza? Ci aspetta una totale de-urbanizzazione? In che direzione si evolverà la smart city32 di cui tanto si parla da un po’ di tempo? Come si realizzerà un’interazione di tipo nuovo fra gli esseri umani e l'ambiente costruito?
Per calare questi interrogativi sul nostro piccolo mondo, si tratta di capire se – evitata la totale desertificazione del panorama urbano e garantita la sopravvivenza di alcuni esercizi commerciali di prossimità – il futuro possa vedere un calo della capacità di aggregazione dei grossi centri commerciali e riservarci una rinascita della vita dei quartieri, in cui la gente si sente più sicura e si muove a proprio agio: questo scenario, per esempio, potrebbe fornire una chance interessante alle strutture caratterizzate da una forte connotazione territoriale, come le piccole librerie indipendenti a gestione familiare e le biblioteche pubbliche di base.
Certo, le incertezze e gli interrogativi prevalgono sulle sicurezze, ma se non ci poniamo queste domande difficilmente riusciremo a giocare la partita della rinascita. E si tratta di una partita da giocare a squadre, perché bisogna agire in più direzioni e solo lavorando insieme e ognuno per la propria parte editori, librai, insegnanti, bibliotecari, insieme ad amministratori e altre operatori culturali potranno pensare di combatterla e vincerla.
Guidare e orientare il cambiamento, come si diceva in precedenza, richiede un impegno a questo livello e di questa gittata, guardando oltre lo stargate.