di Alberto Salarelli
Nel giugno del 1957 Antonio Delfini pubblicò su Il caffè politico e letterario – rivista di estri e irrisioni, come la ebbe a definire Arbasino – la prima puntata del suo Piccolo libro denso1. Si trattava di uno zibaldone di pensieri, aforismi, riflessioni, abbozzi di racconti che l'autore aveva ordinato cronologicamente a partire dagli anni Trenta e che tracciavano una sorta di sconclusionato diario esistenziale del grande scrittore modenese.
L'opera di Luca Ferrieri2 della quale si tratta in queste pagine è il suo libro denso: non piccolo come quello di Delfini e men che meno sconclusionato ma, al contrario, ampio, poderoso nelle sue fondamenta bibliografiche e, per l'appunto, denso, nel senso di ricco, pieno, fitto. Un libro, diciamolo subito, certamente non facile per la molteplicità degli argomenti trattati e per lo stile che nulla (o molto poco) concede al piacere di una percorrenza piana e all'uso di un registro leggero. In considerazione della vastità del lavoro e della sua densità, mi limiterò a proporre in questa sede qualche impressione di lettura, senza alcuna ambizione di fornire un orientamento di massima per districarsi nei molteplici temi trattati nel volume. Si prendano, insomma, queste mie pagine come delle note a margine, come considerazioni e (molti) interrogativi originati dal mio personale approccio ai ragionamenti di Ferrieri, con tutto quello che ne consegue in termini di idiosincrasie e di affinità, di dissapori e di consonanze con le idee dell'autore: ignoro se questo atteggiamento possa essere rubricato sotto l'etichetta della "critica", ma so per certo che ciascuna prospettiva di lettura è differente, nessuna è neutra e che comunque, per quanto mi riguarda, un atteggiamento anodino sarebbe il peggior servizio restituibile a un libro come questo.
La prima considerazione riguarda la visione che l'autore adotta nei confronti delle biblioteche, che è quella della totalità. In altre parole, i venti capitoli che compongono il libro fanno emergere la sensazione che nulla si sia voluto lasciare da parte, ma che tutto possa essere compreso in questo discorso di ampio respiro sul senso di una istituzione, di una professione, di una disciplina. Del resto, l'ambizione di poter dominare la vertigine della totalità è insita nel codice genetico delle discipline bibliografiche; tuttavia, oggi come oggi, in una fase storica caratterizzata dai repentini mutamenti che tutti conosciamo, ci vuole un bel coraggio nel proporre una visione d'insieme. Lo dico senza alcun sottinteso ironico ma, semmai, con la convinzione che – pur con tutte le manchevolezze rilevabili – un punto di vista che aspiri a essere omnicomprensivo possa risultare utile perlomeno per farsi un'idea delle dimensioni del caos quotidiano. Guardare a una realtà complessa come la biblioteca per evidenziare, volta per volta, i ritorti legami che consentono e impongono al discorso bibliotecario di interloquire con altri discorsi di matrice sociologica, economica, politica è un'operazione improba ma efficace a patto che l'autore sia in grado di evidenziare come, tirando un filo, decine di altri ne vengono dietro e che quindi tout se tient. Ferrieri in questo gioco è abile e convincente: la nutrita serie di rimandi interni al libro ed esterni a esso – tramite il mastodontico apparato di note – impedisce sempre al lettore, in qualunque punto dell'opera si trovi, di percepire la sensazione di trovarsi di fronte a un fenomeno isolato, unitariamente delineato, limpido nella sua spiccata evidenza. Al contrario: ogni caso, ogni situazione posta è sistematicamente evidenziata come esempio o risultante di un processo in cui si intersecano e si contaminano piani differenti della realtà.
Naturalmente, come ogni bibliotecario sa bene, il dominio della totalità è un'ambizione: essa si rivela fruttuosa quando viene intesa come stimolo per azioni a largo raggio, ma può tramutarsi in perversa o frustrante allorché ci si dimentichi della sua intrinseca inattuabilità. Questo per dire che la totalità del libro di Ferrieri è ben lungi dall'essere reale. In primo luogo, perché il tipo di biblioteca di cui parla l'autore è, in buona sostanza, quella per cui ha speso tanta parte della sua vita professionale, e cioè quella di pubblica lettura. Quindi colui il quale cercasse tra queste pagine riferimenti specifici a – per dire – biblioteche di conservazione, biblioteche scolastiche e universitarie o, ancora, a biblioteche digitali, temo rimarrebbe deluso. Non del tutto però, in ragione del fatto che diverse considerazioni dell'autore presentano quei caratteri di generalità che le rendono atte a essere applicate in tutti i contesti bibliotecari. Mi riferisco, giusto per fare un paio di esempi fra i molti possibili, a ciò che si dice in relazione alle modalità di misurazione dei servizi (e quindi contro l'idea della biblioteca come "prestificio") o alla necessità di contemperare le esigenze di tutela del diritto d'autore con le altre sfere di diritti dei lettori o, meglio, del corpo sociale in senso lato. Ciò detto, ribadisco, è evidente come l'idea di biblioteca che Ferrieri ci propone si colleghi a una riflessione storica e funzionale attorno al concetto di biblioteca pubblica e al suo necessario superamento. Il titolo del volume perciò, nella sua immediatezza apodittica, suona un po' traditore; meno male che, per rimanere da quelle parti del peritesto, l'immagine scelta per la copertina aiuta a individuare il soggetto del discorso in modo inequivocabile.
In secondo luogo, non si può parlare di totalità del libro in questione quando con essa si voglia intendere la disamina critica di differenti punti di vista sull'argomento. Come del resto Ferrieri tiene a sottolineare fin dalle prime pagine, con encomiabile onestà intellettuale, questo è un libro di biblioteconomia militante che, quindi, prende posizioni nette sul problema del futuro delle biblioteche offrendo non le molteplici visioni attorno a esso, ma propugnandone una soltanto: la sua. Attenzione: non sto affatto biasimando la scelta di questo taglio che l'autore ha voluto dare al saggio, sto dicendo che chi si aspettasse di incontrare tra queste pagine un ragionamento sul futuro della biblioteca pubblica basato su un approccio distaccato che prenda in esame esperienze in atto, prototipi, iniziative, statistiche, dati fattuali ecc., si troverà alquanto fuori strada. La visione di Ferrieri nasce innanzitutto da uno stimolo volontaristico che tracima ovunque nel testo e che matura dalla sua esperienza sul campo, dal suo spessore intellettuale, dalla sua acuta visione dei problemi che affliggono il nostro mondo (non solo quello delle biblioteche). Ed è proprio questo il suo punto di forza. Infatti, se l'argomento su cui verte il volume è assai usurato (attorno al futuro di quella "cosa" che oggi chiamiamo biblioteca pubblica si discute ormai da decenni, anche nella nostra letteratura professionale, peraltro puntualmente richiamata da Ferrieri) la novità apportata da queste pagine – se, a domanda, fossi costretto a rispondere in modo secco – direi che consiste nella gittata dello sguardo. Rispetto ad altri scritti sul tema, più preoccupati di vagliare i possibili sviluppi della biblioteca pubblica in tempo reale o in un futuro a brevissimo termine, quello di Ferrieri è uno sguardo appassionato che tenta di andare più in là, prefigurando una biblioteca che nemmeno lui sa definire in tutte le sue caratteristiche (e tanto meno denominare con l'ennesima, forse inutile, etichetta), proprio perché è verosimile ritenere che la diversificazione delle singole realtà sarà uno dei tratti significativi delle biblioteche prossime venture.
L'ottimismo della volontà è l'ingrediente base di ogni forma di militanza: se non si crede in un esito positivo, vale forse la pena di impegnarsi? Per Ferrieri è scontato che le biblioteche esisteranno nel futuro e che il loro ruolo potrà conquistare una posizione centrale sul palcoscenico delle politiche culturali, in un'ottica (nientemeno) di «ribibliotecazione» della società. Personalmente nutro qualche dubbio verso questo auspicio, di fronte a questa ottimistica3 ineluttabilità sul futuro della biblioteca, istituzione che, come scrisse Petrucciani4, non è mai stata al centro di niente se non di sé stessa, e che, aggiungo io, potrebbe doman l'altro a buon diritto nemmeno esistere più5. La biblioteca della postmodernità (la «postbiblioteca» per usare l'espressione di Ferrieri il quale specifica, a p. 51, come essa non debba intendersi come un'etichetta, ma come una tentazione) è a rischio sopravvivenza proprio perché sconta la perdita di importanza che l'idea di cultura aveva nel mondo moderno, dall'Illuminismo in poi. Come ha ben spiegato Bauman6, se nel mondo moderno le istituzioni culturali potevano accampare una qualche pretesa di centralità in relazione al loro ruolo di garanzia dell'autorità del potere politico, ora l'individuazione di un qualsivoglia ruolo – men che meno centrale – nella triangolazione tra politica/tecnica/economia risulta un'operazione oltremodo complicata e, nel migliore dei casi, destinata a collocare tali istituzioni in posizioni in tutta evidenza marginali.
Naturalmente Ferrieri sa benissimo come stanno le cose ma, invece di farsene una ragione, e cioè di accettare una posizione di ripiegamento e di resistenza7, si lancia in una generale chiamata alle armi: «è il tempo di intraprendere la strada di una ricostruzione, teorica e pratica, di ciò che ancora chiamiamo biblioteca» (p. 51). Ma a chi si rivolge questo appello? E, in tutta franchezza, c'è qualche speranza che esso venga raccolto?
Probabilmente si tratta di un appello generale, rivolto a tutti gli interessati; in ogni caso non generico. Le tre parole che scandiscono il sottotitolo del volume sono il vero programma di questa ricostruzione: pubblica, aperta, sociale.
Pubblica è il termine che fa da trait d'union con il passato, perché se è vero che nel libro si sostiene la tesi della necessità di superare ciò che la biblioteca è stata fino a oggi, è altresì evidente come i legami con l'esperienza maturata nel corso del tempo giochino ancora un ruolo essenziale nello stabilire i criteri fondativi della biblioteca del futuro: 'ri'-costruzione, appunto. Bisogna però intendersi sul significato del termine "pubblica", e cioè in cosa consiste la pubblicità della biblioteca pubblica. Su questo punto Ferrieri è drastico: si tratta di un elemento fondante che però fa parte «nel bene e nel male, di una retorica del pubblico, ove spesso si finisce con il definire e difendere come pubblico proprio ciò che di pubblico ha solo la proprietà in senso patrimoniale» (p. 278). Ne sono anch'io convinto: quando il concetto di pubblico sottintende quello di "per tutti" si rischia di tradire le aspettative di colui il quale non si riconosce affatto nel minimo comun denominatore su cui il servizio è fondato8. Il perno del ragionamento, in altre parole, è la salvaguardia dei diritti dei singoli: la biblioteca «non deve essere pensata in contrapposizione con l'abitudine e il vizio privato della lettura, con la personalizzazione del servizio e la sua aderenza anche ai bisogni e ai desideri individuali degli utenti» (p. 28). D'altro canto però il mio punto di vista è che si debba correre il rischio di definire un minimo comun denominatore, anche a costo di scontentare qualcuno, perché dal buon esito di questa impresa deriva la sopravvivenza della biblioteca in quanto istituzione: se la biblioteca dovesse sempre più considerarsi come "biblioteca per ciascuno" (p. 44; p. 72), non si è forse considerato che a un certo punto l'istituto svanirebbe per lasciare spazio a qualcosa di altro che forse non potremmo più definire biblioteca9? Riassumendo: qual è il "punto critico", direbbe Einaudi (Luigi), oltre il quale le esigenze del singolo andrebbero a prevalere su quelle della collettività?
Secondo Ferrieri la risposta deve essere trovata in seno alle diverse comunità, in un processo di contrattazione aperta che metta in continua discussione il ruolo e la finalità della biblioteca a dispetto di qualsiasi canone, modello, soluzione preconfezionata. Ne esce un'idea di biblioteca che lascia da parte ogni logica essenzialistica e definitoria per sostituirla «con una sorta di rabdomanzia topografica [che] può accogliere la crescente diversità delle biblioteche» (p. 36). Il che, indubbiamente, può suonare affascinante: un afflato liberatorio per cambiare aria nelle stanze dove ristagnano le muffe della tradizionale retorica biblioteconomica. Peccato che, se il contratto sociale non viene concordato entro una cornice di valori espliciti e invalicabili e quindi, in altre parole, se si decide di abdicare al principio di identità, si finisce – come fa Ferrieri – per abbracciare «una sorta di relativismo bibliotecario» (p. 38) ove tutto è possibile, tutto è ammesso, ove la biblioteca è una cosa e anche l'altra «o, meglio ancora [...] ciò che sta tra una cosa e l'altra» (p. 33). Che bella una biblioteca comoda, adattabile, personalizzabile, sprimacciabile...
Purtroppo, seguendo i precetti delle suggestioni postmoderne, la rinuncia al concetto di identità può essere sì liberatoria ma, d'altro canto, ci si può ritrovare senza alcuna bussola per potersi orientare, per capire dove si debba andare. Ci basterà sedersi in circolo a conversare con gli utenti per decidere il da farsi?
Temo di no. Temo che l'abbandono delle tanto paventate logiche definitorie apra un'autostrada verso un rischio, peraltro ammesso dallo stesso autore, che consiste nella perdita delle fondamenta delle istituzioni culturali trascinate via dalle macerie della modernità (p. 51).
Personalmente sono convinto che se permane nella biblioteconomia un sottofondo teleologico, esso consiste nel presidiare alcuni valori che definiscono le biblioteche come istituzioni, proprio nel senso in cui intendeva tale termine – istituzione – Virginia Carini Dainotti, non altri10. Come ho provato ad argomentare l'anno passato in un mio contributo11, la rinuncia a un'idea di biblioteca come istituzione, basata su pochi ma essenziali valori democratici, può rivelarsi fatale per l'esistenza delle biblioteche in quanto tali. E per coloro che ritengono che termini come istituzione, valore, democrazia risuonino come stantii e retorici, consiglio di prestare attenzione a quanto assai più logora risulti ormai la prosopopea della letteratura biblioteconomica postmoderna.
Anche la pulsione verso l'apertura ha origini risalenti agli albori della biblioteca pubblica e si manifesta come una «tendenza storica inarrestabile» (p. 107). Già, ma verso quali mete?
L'immagine che scaturisce dalle pagine di Ferrieri è quella di una biblioteca che, per l'appunto, si apre verso l'ospitalità nei confronti delle esigenze di tutti gli utenti: è sufficiente scorrere l'elenco pubblicato nelle pagine 107 e seguenti per trovarsi di fronte a un panorama immenso, vastissimo, tanto lungimirante quanto, suo malgrado, sfuggente. Perché affermare che ci si debba prodigare per «l'abbattimento progressivo delle barriere, fisiche, psicologiche, burocratiche, culturali, che si frappongono tra l'utenza e il servizio», o per
l'introduzione di misure concrete e di "azioni positive" per favorire il pieno utilizzo della biblioteca da parte di minoranze (linguistiche e non solo), di stranieri, di persone in condizioni di difficoltà, diversamente abili, ipo e non vedenti ecc.
o, ancora, per far sì che la biblioteca diventi un
asilo dei linguaggi. Tutti i linguaggi. E tutte le lingue, comprese quelle minacciate di estinzione, quelle che non si parlano più, quelle artificiali, i dialetti, sempre rispettando le dimensioni e le proporzioni della biblioteca e i criteri di sviluppo delle collezioni12.
Affermare ciò – dicevo – significa abbracciare ecumenicamente un'idea di biblioteca che suona un po' come il "vogliamo tutto" di balestriniana memoria13. Il che, se la mettiamo sul piano dell'utopia politica, ci può stare, mentre sul piano della fattibilità pratica, invece, lascia aperte voragini incommensurabili sul "come" realizzare tutto ciò, sul "come" garantire all'homeless e al lettore forte gli stessi diritti nello stesso luogo senza creare situazioni discriminatorie, sul "come" riuscire a conciliare sotto lo stesso tetto le esigenze dei linguaggi nuovi e desueti mettendo a disposizione degli utenti non solo le collezioni e gli strumenti più consoni, ma anche le opportunità per potersene servire al meglio. Ma al di là di questo aspetto, non propriamente secondario, che biblioteca è quella che ambisce ad aprirsi alle esigenze di ciascuno? Temo che, paradossalmente rispetto alle intenzioni dell'autore, essa si riveli una biblioteca non meno prona ad adottare un criterio utilitaristico, fondato sulla massimizzazione dei benefici per il più grande numero di persone (le maggioranze discriminate?), rispetto a quel modello, caratteristico della modernità, che ambirebbe a superare.
Capisco che il riferimento al romanzo di Balestrini possa suonare un po' malizioso, tuttavia non è del tutto campato per aria. Il ribellismo di Ferrieri – ve lo sareste mai immaginato? – contro il potere costituito nasce come un'inclinazione personale («stare in fila non mi piace fin dalle elementari», p. 12) e sfocia in una vera e propria invettiva contro il "sistema". Eccola:
L'istituzione bibliotecaria ha passato i suoi anni migliori, anche quelli dell'ondata partecipativa degli anni Settanta, a scimmiottare il potere dello stato su cataloghi e scaffali, finendo ad essere non più un organo di diffusione del sapere e del potere, ma uno strumento di mantenimento dell'ordine librario, che ha il suo corrispettivo nell'ordine sociale, il quale a sua volta ha il suo doloroso risvolto, in epoche dittatoriali, nelle epurazioni catalografiche e in altre tristi operazioni di "pulizia etnica" e censura (p. 68-69).
Ragionamento che schiude un discorso amplissimo, ancora una volta, mirato alla ricerca di un necessario equilibrio tra il coté anarchico del lavoro in biblioteca (sotto gli auspici di san Luciano Bianciardi) e quelle necessità di ordinamento che, presumo, abbiano ancora un qualche senso nel campo d'azione della biblioteconomia14.
La questione è doverosamente da inquadrare in una prospettiva teoretica sul ruolo sociale della biblioteca che Ferrieri prende in considerazione a partire da Shera, secondo il quale la biblioteca pubblica è determinata dai cambiamenti sociali e non viceversa. Questa constatazione – del resto abbondantemente suffragata da un tratto alquanto ampio della storia delle biblioteche la cui vita, di fatto, è strettamente legata alle sorti del potere costituito – secondo Ferrieri si rivela come una vera e propria
autoriduzione delle proprie possibilità e anche dei propri doveri. Ne viene così amputata non solo la forza della vision, ma anche la stessa possibilità di esercitare un ruolo preventivo, se non educativo, nell'ambito dei cambiamenti e dei conflitti sociali, condannando la biblioteca a operare sempre come strumento di riduzione di un danno già inflitto (p. 22).
Insomma, ci dice l'autore, il controverso passaggio dalla biblioteca pubblica alla biblioteca sociale, la capacità di oltrepassare la faglia che separa i due momenti, sarà tanto più fattibile nella misura in cui la nuova biblioteca risulterà in grado di parlare un linguaggio imprevedibile, controcorrente, sorprendente e radicale. Affascinante. Ma troveremo un assessore pronto a darci ascolto? E, a proposito di apertura radicale, mi chiedo se un'affermazione come la seguente
la biblioteca ha certamente addomesticato i suoi ingressi, ma poco lontano restano i pannelli dell'antitaccheggio o i tornelli, a ribadire un ordine che, tra l'altro, avvicina i luoghi del sapere ai nonluoghi commerciali o addirittura a quelli detentivi e segreganti (p. 134)
non possa suonare come un'attenuante, seppur blanda, nei confronti dei sediziosi giovanotti che i tornelli distruggono, come avvenuto a Bologna tre anni addietro. Quegli utenti erano, in fondo in fondo, solo compagni che sbagliavano?
Ecco, torno a domandarmi: a chi parla Ferrieri? A chi rivolge le proprie considerazioni non sulla biblioteca che vorrebbe (come altri hanno fatto), ma su quella che, egli ne è certo, verrà? Chi ha in mente quando scrive? I bibliotecari? Gli utenti? Gli amministratori? O i professori di biblioteconomia? Di fronte a frasi come questa: «La biblioteca catacrestica lavora sulla scia di desiderio che la mancanza del referente ha lasciato come traccia invisibile nel discorso del lettore» (p. 171), non riesco a pensare ad altro che: cioè?
A questo punto, come credo si sarà capito, il lettore che avrà la pazienza di addentrarsi nelle dense pagine di questo libro sarà forse indotto, come il sottoscritto, a riempire di freghi le pagine stesse o, addirittura, a trattarle ancor peggio. E per questo, lo ammetto senza alcun ritegno, sono un po' invidioso: se un libro ti induce a maltrattarlo è perché perlomeno un qualche sommovimento ha prodotto in un chissaddove che sta dentro di te tra il cervello e la pancia. Di questi tempi non è affatto scontato, anzi il contrario. Confesso poi che, come ne ho detestate alcune, ho amato molte altre riflessioni che il libro di Ferrieri contiene: tra poco vi parlerò di due di esse. Ma prima lasciatemi lodare lo strabiliante apparato citazionale che l'autore mette in campo a supporto delle proprie affermazioni: che Ferrieri ami citare non è certo una novità. Qui però siamo al virtuosismo (qualcuno potrebbe dire: al parossismo): su 415 pagine totali, le note ne occupano ben 150. Per me una vera e propria miniera con indicazioni di contributi della letteratura biblioteconomica spesso sconosciuti o certamente poco noti. Insomma, per chi fa ricerca, un apparato talmente ricco di suggestioni e di prospettive che gli perdoniamo un po' di pedanteria (era proprio necessario, in un libro come questo, spiegare cos'è il modello concettuale FRBR o fornire gli estremi editoriali de La linea d'ombra di Conrad?).
Insomma, per dirla con Dickens, «molti autori hanno una certa riluttanza, non solo sciocca, ma anche disonesta, a indicare le fonti da cui traggono importanti notizie. Noi non siamo così»15. Ferrieri non è così. Grazie.
Tra le pagine per me più convincenti, più apprezzabili, vi sono quelle dedicate alla neutralità del bibliotecario. Coerente con l'assunto iniziale – si tratta di un libro militante – Ferrieri si esprime in maniera molto netta contro l'idea che la biblioteca possa rappresentare un presidio della neutralità:
La concezione del lavoro bibliotecario che trasuda dall'ideologia della neutralità è esattamente l'opposto di ciò che questo libro intende consegnare al lettore. Si tratta di una concezione asettica, formale, continuamente preoccupata di stare nei limiti, entro le barriere e le logiche delle cosiddette competenze ed altri scudi burocratici, che nega al lettore il conforto di un parere o di un'espressione personale quando richiesto (p. 82-83).
Il tema non è certamente nuovo infatti, come è stato osservato16, la neutralità intellettuale è quello più controverso e dibattuto quando si tratta di individuare i valori fondanti della deontologia della professione bibliotecaria. Peraltro, esso ha goduto di un recente revival nell'ambito della biblioteconomia italiana in relazione al dibattito sviluppatosi attorno al tema delle fake news, dibattito ospitato soprattutto sulle pagine di questa rivista.
Preso atto che neutralità è un termine fortemente polisemantico, ciò che trovo di spiccatamente interessante nella posizione di Ferrieri è la considerazione che la funzione pubblica della biblioteca si manifesta come tale non nel momento in cui i bibliotecari affermano di astenersi dal formulare valutazioni di merito sui contenuti dei documenti (il che significa dichiarare il falso, come sa benissimo chiunque abbia anche solo una vaga idea di cosa significhi gestione documentaria: dall'acquisizione allo scarto) ma, al contrario, quando essi trovano il coraggio di prendere posizione assumendosi la responsabilità delle proprie scelte, come del resto è sempre accaduto nel corso della storia delle biblioteche. In ambito bibliotecario tutte le scelte, o quasi, sono scelte assiologiche ed è per questo che la causa della neutralità17 non depone a favore dell'immagine di professionalità del bibliotecario, mentre invece è l'etica della responsabilità che dovrebbe assurgere al ruolo primario.
Se un bibliotecario non avesse il coraggio di riconoscere il fatto che esistono libri buoni e libri cattivi e, come dice Ferrieri, di esporre il proprio parere in merito a un lettore desideroso di conoscerlo, a cosa si ridurrebbe una biblioteca? A «uno spaccio in cui i lettori arriveranno con la ricetta del biblioterapeuta e i bibliotecari si recheranno sugli scaffali per reperire e consegnare il prodotto prescritto» (p. 83): proprio un bel risultato per chi ambisca a riconoscere, come cardine della professione, il ruolo e la funzione del bibliotecario come mediatore culturale.
Luigi Crocetti si domandava, ormai tanti anni fa: «dopo secoli o millenni di neutralità, il bibliotecario dovrà finalmente entrare nel merito, come si suol dire, di ciò che raccoglie?». Di fronte a questo interrogativo, l'ottavo capitolo del libro di Ferrieri, che parla di bibliotecari aperti, coraggiosi e intellettualmente onesti, contiene un sonoro e convincente sì18.
Un altro tema a me caro che ricorre in tutto il libro ma che, in specifico, caratterizza l'ultima parte è quello legato alla necessità di riscoprire da un lato, e di potenziare dall'altro, le fondamenta teoriche della biblioteconomia. Oggi, scrive Ferrieri,
il nostro lavoro, la nostra azione, il nostro sacrosanto biblioattivismo, hanno un disperato bisogno di teoria, di fondazione filosofica, che non può nascere se non dalla più aperta, interdisciplinare, indisciplinata e indipendente ricerca (p. 13).
Come dargli torto? Per un bibliotecario vivere in un mondo complesso come quello attuale – di una complessità che caratterizza i grandi fenomeni globali ma che, in specifico, tocca le modalità di trasmissione del sapere, dimensione di cui fanno parte anche le biblioteche – senza gli strumenti per poter tentare non di domare la complessità, ma di poterla interpretare, significa collocarsi in una posizione ancor più marginale di quella già oggi occupata. Non si tratta di una preoccupazione emersa l'altro ieri: infatti, al di là del quadro tratteggiato nel capitolo 5 sulla diffidenza di molti bibliotecari nei confronti della speculazione filosofica giudicata «una astruseria che rischia di accentuare ulteriormente la distanza tra la riflessione biblioteconomica e la vita reale delle biblioteche» (p. 53), già nel lontano 1974 Luigi Balsamo lamentava l'arretratezza e la scarsa scientificità di una biblioteconomia italiana eccessivamente "bibliocentrica" mentre, per servire di utilità alla professione, essa avrebbe dovuto concentrarsi non solo sull'apprendimento delle tecniche operative ma nella «formazione di un'attitudine mentale critica che abitui il bibliotecario a riflettere su ciò che si fa e a capire non solo come fare una cosa ma perché essa viene fatta»19.
Non so dire in tutta franchezza se, a distanza di mezzo secolo, la biblioteconomia italiana abbia appreso questa lezione. A mio modo di vedere qualche segnale positivo in tal senso c'è, qualche voce non più clamante solitaria nel deserto, anche. Ferrieri è, appunto, una di esse. Certo, dal punto di vista di uno che insegna biblioteconomia in università, rimane la sensazione che molto di più e di assai diverso si dovrebbe fare per comprendere, nel programma di studi, «la critica della cultura e della sua produzione» e per trasformare la biblioteca in un luogo di «decostruzione linguistica» (p. 233). Mi chiedo, io per primo, se ho la forza di fare ciò in un contesto accademico come quello nostrano, caratterizzato dalla volontà di tarpare ogni sconfinamento, ogni divagazione che si allontani dai limiti più o meno angusti di ciascun distinto settore scientifico-disciplinare; ma, ancor prima di tentare di schivare tutti questi ostacoli, mi chiedo se ho i mezzi e le competenze per misurarmi con i miei studenti su un terreno del genere: in altri termini se tutto quello che ho fatto e studiato fino a oggi mi consente (oppure no) di poter affrontare tali prospettive. E ammetto di non saper trovare una risposta.
Di una cosa però sono certo: non saranno soltanto i bibliotecari a definire la biblioteca del futuro. Contro la concezione lankesiana che una stanza con dentro un bibliotecario possa essere definita come una biblioteca20, Ferrieri oppone una riflessione che mi sento di condividere in pieno:
L'idea del bibliotecario come un deus ex machina ubiquo e infallibile (o quasi), è una visione iper-professionalistica, che rischia per converso di convalidare il luogo comune sull'inutilità delle biblioteche, accelerandone la trasformazione in un ufficio qualsiasi (p. 240).
Seppur interpretabile con l'attenuante della provocatorietà (che però non dissipa quella sensazione ovunque serpeggiante negli scritti del guru di voler lisciare il pelo ai bibliotecari per convincerli che la loro professione è la più bella del mondo e che essi sono imprescindibili per le sorti della società del futuro... expect more, caro bibliotecario, te lo meriti, ne hai diritto), l'affermazione di Lankes è una scempiaggine che non tiene conto dell'evoluzione storica delle biblioteche (forse perdonabile) e delle aspettative che gli utenti attuali nutrono nei confronti delle biblioteche (del tutto imperdonabile)21. Non si tratta di mettere in discussione l'importanza del ruolo professionale dei bibliotecari: non bisogna dimenticare però che essi esistono perché le biblioteche hanno bisogno di loro, ma soprattutto perché le biblioteche vengono "prima" di loro (così come esse vengono "prima" del libro).
Come per tutte le organizzazioni complesse, il ruolo del capitale umano è sicuramente cruciale, tuttavia esso non è sufficiente a determinare le sorti della struttura nella sua totalità, sorti che derivano da una combinazione in cui entrano in gioco moltissimi fattori, dalle intenzionalità politiche alle risorse economiche e tecnologiche, alla trama di relazioni instaurate con altri soggetti. Per un utente la fruizione di un servizio potrà assumere, di volta in volta, la faccia di un medico, di un docente, di un bibliotecario, tuttavia gli ospedali non sono i medici, le scuole non sono i professori e le biblioteche non sono i bibliotecari: «Sicuramente la professione bibliotecaria potrà esistere anche fuori dalle biblioteche (già oggi è così), ma non potrà esistere senza le biblioteche» (p. 240-241).
Anteporre le biblioteche alla professione, una professione esercitata per una vita, è segno di una grande lealtà e coerenza di pensiero, ma non solo: mi verrebbe da definirlo, pur con il rischio di impiegare un'espressione abusata, un atto d'amore. Perché si può essere d'accordo o no attorno a quanto Ferrieri sostiene in questo libro, ma non si può non riconoscergli la profonda convinzione e lo smisurato impegno che ha posto, e pone ancora oggi, al servizio delle biblioteche e dei cittadini che ne usufruiscono. Ecco perché nel titolo di questo mio intervento non ho voluto rinunciare alla parola "passione", un termine che Ferrieri utilizza in tanti luoghi di questo libro per parlare dell'empatia verso il prossimo, della pedagogia bibliotecaria ma, soprattutto, del ruolo e del valore della lettura, dell'etica della lettura, tema che percorre tutto il volume e attorno al quale, rispettosamente, mi astengo da aggiungere qualsivoglia commento, sollecitando non solo un esame attento ma vieppiù meditato delle pagine che Ferrieri dedica a essa.
Passione, dicevamo. Di questo sentimento l'autore fornisce anche una suggestiva definizione: «La passione sembra quasi ambire al ruolo di un “sentimento razionale”, a cui spetta il compito di filtrare il contenuto ambiguo e lutulento delle emozioni» (p. 213). Ho parlato di un libro proiettato verso il futuro, visionario, forse anche troppo. Ma credo lo si possa anche considerare come una sorta di autobiografia intellettuale nella quale, attraverso il filtro della passione, confluiscono e decantano quelle storie, quegli incontri, quelle emozioni che hanno segnato una intera vita. Ed è per questo che, come accade per tutte le scritture dense, «non vi è dubbio che in un libro vi possa essere molto di più di quanto l'autore abbia inteso dire e che tutto ciò possa tornare a vantaggio o meno, a seconda dei casi»22.
Ultima consultazione siti web: 28 luglio 2020.