Federico Meschini
The most valuable commodity I know of is information.
(Wall Street, 1987)
Information is like a bank. Some of us are rich, some of us are poor with information. All of us can be rich. Our job, your job is to rob the bank, to kill the guards. You go out there to destroy everybody who keeps and hides the whole information.
(Decoder, 1984)
La prima citazione nell’epigrafe è abbastanza nota, o facilmente rintracciabile, anche per chi non sia a tutti i costi un appassionato cinefilo; inoltre, è stata già utilizzata nelle riflessioni sulla rilevanza dell’informazione nella società contemporanea1. Lo stesso non si può dire per la seconda, e ciò non stupisce più di tanto, in quanto proviene da un film affatto diverso. Il primo è un prodotto mainstream ambientato nel mondo dell’alta finanza, mentre il secondo è un’opera di fatto indipendente, espressione della controcultura e incentrato sulla teoria del complotto. Per ciò che riguarda il ruolo fondamentale dell’informazione, il significato di queste due frasi è però estremamente simile. Per di più, ad un livello diegetico, entrambe vengono pronunciate da una figura autorevole, una sorta di mentore, con lo scopo di fungere da iniziazione verso un mondo altro in cui l’eroe si dovrà avventurare, e perciò racchiudono il principio fondamentale che quest’ultimo dovrà seguire nel suo percorso. Certo, i punti di vista sono diametralmente opposti, in quanto le due storie esprimono sensibilità diverse. In Wall Street l’importanza dell’informazione è data dalla sua esclusività – sottolineata dall’utilizzo del termine commodity – laddove Decoder si fa portatore delle istanze del movimento cyberpunk, che vedeva nelle reti telematiche una forma di liberazione, tramite l’utilizzo e l’occupazione di spazi informativi privi di qualsiasi forma di controllo. Nel primo caso l’informazione viene vista come un bene esclusivo, ed è importante che rimanga tale; nel secondo deve diventare un bene comune, a qualsiasi costo.
Nonostante la diffusione su scala globale di internet abbia assunto degli aspetti legati al neoliberismo decisamente rilevanti2, la complessità di questo fenomeno è tale da aver reso possibile, in larga parte, lo scenario auspicato in Decoder, senza però dover compiere nessun atto efferato. Paradossalmente, per molti versi è proprio il ruolo dell’informazione come bene esclusivo ad aver permesso che diventasse allo stesso tempo un bene comune: basti pensare al caso di Google, il cui asset principale è il quantitativo d’informazione che riesce a gestire e a rendere disponibile rispetto agli altri motori di ricerca.
Certo, diventare ricchi è tutt’altro che immediato in quanto sono sempre presenti delle barriere: al momento, però, la principale è costituita paradossalmente dall’informazione stessa3. È necessario perciò mettere in atto un processo continuo, di cui una componente fondamentale è quell’insieme variegato di competenze, attitudini e sensibilità che vanno sotto l’etichetta di information literacy (IL). Definita dall’American Library Association come quelle abilità fondamentali «[to] recognize when information is needed and have the ability to locate, evaluate, and use effectively the needed information»4, il principio fondativo dell’IL può essere sintetizzato nella necessità di un atteggiamento consapevole e dei relativi strumenti critici in ogni fase del ciclo dell’informazione: dall’occorrenza all’uso, passando per la trasmissione e la gestione5.
L’IL è l’argomento principale, sin dal titolo, dell’ultimo libro di Maurizio Lana: Introduzione all'information literacy6. Come ricorda Maurizio Vivarelli nella sua prefazione al volume7, quello di Lana è un nome ben noto nel panorama delle digital humanities (DH), nazionali e non solo. La pubblicazione di questo volume è una prova della sempre maggiore interazione e contaminazione tra questo settore e quello delle culture documentarie, facilitata dalla natura interdisciplinare di entrambi. In ambito internazionale ciò avviene da tempo, vedi in particolare i sempre più rilevanti rapporti tra la library and information science e i media and communication studies da un lato e le discipline computazionali dall’altro, in particolare per ciò che riguarda la data science8. Se queste ultime sono una componente fondamentale delle DH, anche i media studies ne fanno ormai parte da tempo, tramite i new media. Punto di accumulazione di tutte queste interazioni è, per l’appunto, il concetto di informazione, la cui ricchezza polisemica è il trait d’union ideale9, oltre ad essere, per ovvi motivi, centrale all’idea stessa di IL.
Il saggio di Lana è il frutto di un lavoro corposo e rigoroso: più che un’introduzione andrebbe definita come una sistematizzazione di una tematica affatto complessa; presenta inoltre degli aspetti riflessivi, in quanto è frutto – come tutti i lavori scientifici – di un processo di IL, di cui però al tempo stesso espone e discute metodologie e strumenti. Certo, il tema dell’IL è ormai da tempo parte integrante e oggetto di discussione nel panorama biblioteconomico italiano, e in particolare va ricordato il contributo di Laura Ballestra10. L’apporto di Lana a questo discorso è per molti versi complementare a ciò che è stato scritto in precedenza, e si concentra sulla necessità e sulla centralità dell’IL ad un livello generale, oltrepassando la dimensione della ricerca scientifica cui tradizionalmente viene collegata. Con tutti i limiti del caso, una generalizzazione utile per inquadrare questa pubblicazione è sottolineare che il focus è sul cosa e sul perché dell’IL – laddove in precedenza era soprattutto sul come – e viene continuamente evidenziato il fatto che debba diventare una competenza di base, al fine di garantire la corretta partecipazione di ogni cittadino alla vita democratica11.
A sostegno della tesi di Lana, va segnalato un altrettanto recente volume, in cui la rilevanza sociopolitica dell’IL viene resa esplicita sin dal titolo: Informed societies: why information literacy matters for citizenship, participation and democracy12. La prefazione è scritta da Lisa Janicke Hinchliffe, chair dell’Information Literacy Section dell’IFLA, e si apre con la frase «To say that this book is timely is an understatement»13; nell’introduzione si afferma che uno degli scopi di questa pubblicazione è:
to highlight the social importance of information literacy, to encourage its further recognition and give it its due place, by making reference to it very explicitly as a vital factor in the functioning of a healthy, inclusive, participatory society14.
Certo – essendo questo volume un’opera collettanea – il tema dell’IL viene affrontato con un approccio multidisciplinare, che va dalla scienza politica alla psicologia passando per la sociologia, sebbene il ruolo delle biblioteche venga analizzato in due diversi capitoli. Epperò le frasi riportate si possono applicare anche al testo di Lana in cui, con le ovvie e dovute differenze, viene sottolineata la multi, inter e transdisciplinarità dell’IL.
Per questo stesso motivo, la diffusione di tale tematica si può riscontrare anche altrove, sebbene declinata con altre espressioni e calata in contesti differenti, seppure attigui. Ad esempio Peter Shillingsburg, un critico testuale ben noto nelle digital humanities, nel suo libro Textuality and knowledge dedica un intero capitolo all’importanza dell’accesso alle fonti primarie digitalizzate, insieme alla capacità di interpretarle, per ciò che concerne la giustizia sociale15. Le espressioni utilizzate sono «social justice» e «textually aware»; la prima rappresenta uno dei cardini fondamentali della democrazia, mentre la seconda è di fatto una declinazione di information literate per ciò che riguarda l’informazione testuale. Anzi, per molti aspetti le pratiche ecdotiche sembrano essere il calco da cui sono state tratte quelle dell’IL, in particolare per ciò che riguarda la componente documentale16.
Va da sé che per chiunque sia un information professional, la necessità dell’IL come abilità essenziale sembra essere del tutto logica e non necessitare di una forte argomentazione, in base alle proprie competenze ed esperienze personali. Ad esempio, chi scrive ha trovato dei forti collegamenti tra le riflessioni di Lana e diverse questioni di cui si è recentemente occupato, ossia – andando dal generale al particolare – le fake news, le conversazioni sui social, la comunicazione scientifica e addirittura il rapporto tra la dimensione computazionale e quella digitale nelle edizioni elettroniche. Data la globalità della tesi, è però necessaria un’argomentazione altrettanto globale. Certo, il tema delle fake news – più volte trattato su AIB studi – potrebbe assolvere tranquillamente a questo ruolo. Parimenti, anche la polarizzazione sui social si può leggere come una contrapposizione tra information literate da un lato e illiterate dall’altro.
La dimostrazione definitiva – e che ingloba le due appena citate – è stata però fornita dal corso degli eventi. Così come per le considerazioni di Anna Galluzzi su La cultura orizzontale17 – il recente libro di Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini18 – è di fatto impossibile scrivere riguardo a Introduzione all'information literacy senza rileggerlo alla luce dell’evento par excellence del 2020: la pandemia di Covid-19.
Quanto questa emergenza sanitaria sia collegata al tema dell’IL si evince dalla definizione che ne ha dato la World Health Organization (WHO) di infodemic, tanto da far affermare al suo stesso direttore, Tedros Adhanom, «We’re not just fighting an epidemic; we’re fighting an infodemic»19, in quanto la velocità di diffusione della seconda era superiore a quella della prima, a causa della possibilità di sfruttare i fattori algoritmici e sociali. Per il Vocabolario Treccani un’infodemia è una «circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili»20. Il neologismo infodemic si può far risalire ad un articolo scritto da David Rothkopf in occasione dell’epidemia di Sars dei primi anni Duemila, che sembra descrivere una sorta di prova generale di ciò che è successo su scala globale quasi vent’anni dopo21. Nonostante certi aspetti non fossero all’epoca prevedibili – in primis la diffusione dei social e il fenomeno delle fake news –, Rothkopf delinea efficacemente le caratteristiche e i rischi delle infodemie, oltre a sottolineare come si sarebbero sicuramente ripresentate in futuro, e su scala più ampia. Fortunatamente scrive anche:
Yet if information is the disease, knowledge is also a cure. We should react to infodemics just as we do to diseases. […] That does not mean repressing information. It means effectively managing each outbreak and presenting the facts fully and quickly to critical audiences22.
Va evidenziato l’utilizzo nell’ultima frase degli avverbi fully e quickly, i cui concetti sottostanti verranno discussi in seguito. Se però il rischio di pandemia è stato ricordato più volte negli anni, a partire dall’ormai celebre TED Talk di Bill Gates del 2015, fino a qualche mese fa non è stato collegato a quello di infodemia.
Oltre alle analogie esistenti tra pandemia e infodemia, quanto il livello informativo e quello biologico siano intrecciati è dimostrato dal fatto che la rapidità o meno di trasmissione del virus – con le relative conseguenze sul sistema sanitario – è dipesa da dei corretti comportamenti individuali. Con uno sguardo retrospettivo è possibile verificare su base induttiva – o, per i più scettici, perlomeno abduttiva – l’efficacia di tali comportamenti, che a loro volta dipendevano da una corretta informazione23. Chi è information illiterate ha per forza di cose una scarsa consapevolezza della scienza come processo dialettico, come iterazione continua di trials and errors in cui spesso sono proprio gli errori ad essere decisivi. Di conseguenza, cambi di direttive – come ad esempio quello sull’efficacia dei dispositivi di protezione individuale – decisi in base ai dati a mano a mano raccolti e alle analisi effettuate, rischiano di minare in queste persone la fiducia nelle istituzioni, aprendo così la porta alla disinformazione (sebbene, a rifletterci, sono proprio questi cambiamenti più o meno improvvisi a rendere inattuabili gli scenari deterministici tipici delle teorie del complotto). In ogni caso, tutto ciò ha costretto le maggiori organizzazioni sovranazionali, in primis la stessa WHO, a prendere delle ferme posizioni su questo aspetto, costituendo dei gruppi di lavoro interdisciplinari e delle risorse adeguate, basandosi sulle piattaforme digitali24.
Alla presa di consapevolezza di trovarsi di fronte ad un’infodemia, è seguita la necessita di avere una (trans)disciplina in grado di occuparsene: l’infodemiologia25. Per questo motivo la WHO ha organizzato una Infodemiology Conference, con lo scopo di avviare una comunità di pratica e di ricerca a riguardo, per definire le modalità di gestione delle infodemie26. Questa conferenza ha avuto luogo virtualmente da fine giugno a fine luglio 2020. Il lancio è consistito in una serie di presentazioni, che avevano lo scopo di delineare le diverse dimensioni dell’infodemia in corso. Si è andati perciò dall’aspetto medico a quello culturale, passando per la comunicazione, l’analisi dei dati e le reti sociali. Successivamente sono state avviate delle sessioni parallele tra i diversi gruppi, in cui sono stati affrontati a rotazione i seguenti argomenti: la misurazione e l’osservazione dell’informazione nel mondo fisico e in quello digitale; gli schemi di origine e diffusione dell’informazione; l’influenza dell’informazione sugli individui e sulle popolazioni; le modalità di protezione e attenuazione delle infodemie. Va da sé come il mondo delle biblioteche sia direttamente interessato a tutti questi argomenti, nonché coinvolto nella maggior parte di essi, con la possibilità di un ruolo attivo, in particolare nell’ultimo.
Se però tra le immagini utilizzate per la comunicazione della 1st WHO Infodemiology Conference ne troviamo una basata sulla storia dei sei uomini ciechi e l’elefante, a voler sottolineare l’approccio transdisciplinare adottato, l’elefante nella stanza è proprio l’assenza di un qualsiasi rappresentante della library and information science. Inoltre, nella variegata documentazione multimediale della conferenza, resa disponibile dalla WHO, non si trova traccia o riferimento né alle biblioteche né, ad un livello più ampio, alle scienze e culture documentarie27. Ciò nonostante, sia negli interventi iniziali sia nelle conclusioni riepilogative, oltre ad essere stata esplicitamente citata in più di un’occasione, gli stessi concetti dell’IL sono un leitmotiv ricorrente. Come ricorda Lana:
[le biblioteche] hanno fatto information literacy fin da quando non esisteva la società dell’informazione e all’informazione si accedeva solo attraverso fonti scritte. E dunque sembrerebbe ovvio che esse siano in grado di continuare a svolgere lo stesso ruolo anche nella società dell’informazione28.
Per di più, sempre nell’intervento collettivo conclusivo29, è stata sottolineata la necessità di uno spazio comune in cui le diverse comunità scientifiche possano dialogare: altro non si tratta che di una modalità di creazione della conoscenza tramite processi conversazionali, e anche in questo le biblioteche dovrebbero avere un ruolo di primo piano30.
Questa assenza è quasi sicuramente dovuta a due fattori. Il principale è la percezione, interna ed esterna, della comunità biblioteconomica31. Non va però trascurato il secondo, incentrato proprio sull’IL stessa, e che va affrontato. Una prima spiegazione è che tra biblioteche e IL da un lato, e infodemia dall’altro, esista lo stesso rapporto che lega l’educazione alimentare alle malattie derivanti da una cattiva alimentazione, e difatti il paragone tra l’informazione e il cibo è presente anche nel libro di Lana. Quindi si può ipotizzare che l’IL di matrice tradizionale possa andare bene nelle fasi di prevenzione, o perlomeno in quelle meno acute di un’infodemia, ma non certo in quelle più gravi, in cui l’imperativo è di seguire la «fierce urgency of now» – per usare le parole di Martin Luther King – e sono necessarie misure più stringenti. Ad un livello più generale, la natura sistemica delle infodemie invalida questa ipotesi: il fatto che le biblioteche siano contemporaneamente radicate nel passato e proiettate nel futuro le rende quanto mai necessarie nel presente. Inoltre, sempre considerando l’asse temporale e il medio/lungo periodo, tra le numerose conseguenze che ha e che avrà questa pandemia, va inclusa proprio una recrudescenza dei disordini informativi nelle loro manifestazioni più estreme32, necessitando quindi di interventi continuativi che andranno pianificati sin da subito e coordinati con le altre attività.
La scomparsa della pandemia non significherà altrettanto per l’emergenza informativa, che continuerà ad essere presente, seppure in forme diverse, meno visibili ma non per questo innocue. Di conseguenza, questa consapevolezza sulla rilevanza della dimensione informativa a tutto tondo dovrà diventare parte integrante delle pratiche sociali, educative e comunicative: questo è esattamente l’oggetto basilare dell’IL; a sua volta in quest’ultima dovrà essere inglobato ciò che questa esperienza ancora in corso ci permette e ci permetterà – con il necessario distanziamento critico – di osservare: in particolare la necessità di un allineamento tra la componente scientifica, informativa, comunicativa e politica, ma soprattutto il dover gestire scenari affatto diversi da quelli della ricerca scientifica e della formazione in cui l’IL si è andata definendo sino ad ora.
Quindi, le soluzioni proposte per la gestione delle infodemie più che stravolgere l’IL tradizionale l’adattano al contesto e la integrano in una modalità transdisciplinare. Lana, nel suo volume, parla di «critical information literacy», un’interpretazione dell’IL che la vede applicata nelle circostanze più disparate33. Ciò implica dei cambiamenti: data la centralità dell’IL nelle biblioteche, questi non possono non ripercuotersi sul ruolo e persino sulla natura di queste ultime.
Per comprendere meglio questi nuovi scenari, può essere proficuo prendere spunto dalla metafora sportiva di Luciano Floridi, in cui viene messa in relazione una partita a tennis con la teoria dell’informazione34. L’IL, per come si è formata e definita in biblioteca può essere considerata come un allenamento di boxe a tutto tondo, avente come fine ultimo un incontro già prefissato, in cui la conoscenza e studio dell’avversario è parte integrante della preparazione. Al contrario, lo scenario attuale ha le caratteristiche di una rissa da strada, in cui le dinamiche sono affatto diverse, in primis per la rapidità, l’intensità e l’impossibilità di un’accurata pianificazione preventiva. Ecco perché le stesse tecniche andranno applicate di volta in volta in maniera affatto diversa35. Lana effettua una considerazione simile quando scrive riguardo alla differenza tra l’IL nello studio e nel posto di lavoro. In quest’ultimo caso, il maggior dinamismo e l’interazione sociale richiedono configurazioni diverse da quelle tradizionali36; ciò torna altresì utile ad un livello più generale, che sempre Lana – riferendosi per forza di cose ad uno scenario pre-Covid – descrive parimenti attraverso una metafora sportiva: «se [le biblioteche] fossero un atleta diremmo che per arrivare ad alto livello deve migliorare la metodica di allenamento»37.
In ogni caso, così come spesso in una rissa è necessario dimenticarsi del fair play, allo stesso modo nell’IL – soprattutto per ciò che riguarda la parte relativa alla comunicazione e al rapporto con gli altri – bisognerà prediligere l’empatia e la solidarietà rispetto al rigore scientifico, tendendo fisiologicamente verso la narrazione. Se non è possibile effettuare un’accurata pianificazione iniziale, il corrispettivo di affidarsi all’istinto, modificando velocemente le proprie azioni in base a ciò che succede, sarà ottenere il maggior quantitativo possibile d’informazioni dai dati a disposizione, ad esempio utilizzando le tecniche di analisi delle reti sociali. Non è certo un caso che questi due ultimi fattori siano collegati rispettivamente alle discipline della comunicazione e dell’analisi dei dati, citate all’inizio di questo articolo.
Per una singolare coincidenza, la copia fisica del libro di Lana per la redazione di questo articolo è stata consegnata appena prima che venisse dichiarato il lockdown su tutto il territorio nazionale. Ciò ha permesso di affiancarne alla lettura l’osservazione empirica di ciò che stava succedendo a livello mediatico, e specialmente sui media digitali. Va ricordato che è solo grazie a questi ultimi che il social distancing si è di fatto limitato ad un physical distancing, permettendo lo svolgimento di numerose attività professionali, educative e addirittura ricreative. In una prima fase sembrava di essere tornati a quell’entusiasmo ottimistico che caratterizzava i primi anni di diffusione della rete, «quando l’innocenza del mondo digitale non era ancora totalmente perduta»38, ma ciò è stato ovviamente di breve durata.
Per fare ordine in questo coacervo di opportunità e criticità – dualità che sembra richiamare le citazioni da cui siamo partiti –, può essere utile effettuare delle distinzioni, così da capire, nello scenario in questione, «these processes by which society achieves a state of knowing and communicates its knowledge throughout its constituent parts»39.
Una prima distinzione che può venire in mente è quella tra media tradizionali e nuovi: funziona però fino ad un certo punto, a causa dell’attuale livello di compenetrazione, vedi il caso della conferenza ufficiale del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana trasmessa in streaming su di una piattaforma privata e da lì ripresa dal servizio pubblico.
Una classificazione più efficace potrebbe essere quella di identificare il tipo di mediazione effettuata e la logica dominante. Oltretutto, tali suddivisioni vanno inquadrate nel discorso più ampio della documentazione, in quanto si riferiscono alle finalità e alle modalità di produzione e disseminazione di oggetti fisici – anche nel caso di quelli digitali – che veicolano un qualche significato utilizzando determinati linguaggi e codici comunicativi40.
Nel primo caso potremmo avere una mediazione dall’alto – tipica dei cosiddetti media mainstream, fondati sul principio d’autorevolezza – o dal basso, in cui o è totalmente assente o basata principalmente su princìpi algoritmici. Nel secondo caso la logica dominante potrà essere informativa o mediatica. Naturalmente questi princìpi sono tra di loro distinti solo in linea teorica, in quanto nell’applicazione pratica si ritrovano spesso combinati. Ad esempio, i media mainstream impiegano sempre più i metodi computazionali; a loro volta questi ultimi vengono sfruttati per far circolare informazioni – il più delle volte non veritiere – prodotte al di fuori dei canali ufficiali: una vulnerabilità ben nota è quella dei data voids, l’assenza di informazione certificata per determinate parole chiave negli indici dei motori di ricerca, che dovranno perciò fare affidamento alle uniche fonti disponibili41.
Allo stesso modo, nonostante information logic e media logic siano affatto diverse – corrispondendo agli avverbi fully e quickly visti in precedenza – è impossibile una distinzione netta, a causa della loro interdipendenza42. Certo, laddove lo scopo principale della prima è di rendere disponibile informazione semanticamente corretta, quello della seconda è di avere il maggior riscontro ed eco possibile. La prima, soprattutto per contesti non soggetti a rapidi mutamenti, tende verso l’asse diacronico, la razionalità e predilige l’utilizzo dei codici linguistici e numerici; la seconda verso quello sincronico, l’emotività e spesso fa un forte uso della comunicazione visiva. Quindi una possibile classificazione potrebbe essere quella di considerare se si tratta di informazione mediata dall’alto o dal basso, ma soprattutto quale sia la logica sottostante. Se di tipo informativo, ad essere rilevante sarà la consapevolezza della verificabilità, perlomeno in via teorica; nell’altro caso sarà necessario conoscere le strutture retorico-comunicative utilizzate43. I due estremi di questo asse ideale sono il dataset da un lato e il video divulgativo dall’altro, con tutte le numerose e inevitabili commistioni nel mezzo44.
Lo scenario ideale è quello che vede la media logic di supporto all’information logic: ciò diventa fondamentale quando informazioni normalmente appannaggio di un ristretto gruppo di esperti devono essere diffuse su larga scala. Gli attuali modelli di business dell’industria dell’informazione rendono però questo scenario non sempre attuabile, e nella maggior parte dei casi la notiziabilità, soprattutto se caratterizzata da velocità, viralità ed emozionalità, diventa predominante rispetto alla veridicità45. Questi appena descritti sono esattamente gli stessi meccanismi dei social: non è un caso perciò che, sempre più frequentemente, siano proprio i media tradizionali a veicolare informazione non veritiera, dando così un’esposizione significativa a fenomeni che altrimenti rimarrebbero circoscritti (corsivo mio):
Carlos Navarro, head of Public Health Emergencies at UNICEF, told The Lancet that while a lot of incorrect information is spreading through social media, a lot is also coming from traditional mass media. “Often, they pick the most extreme pictures they can find…[...] that is, in fact, sending the wrong message”46.
Un caso esemplare è la proposta di sperimentazione di un farmaco antivirale per la cura del Covid-19 esclusivamente in base alla diffusione di un video sui social, il cui scopo era chiaramente ottenere l’attenzione dei media, in quanto caratterizzato da tutti gli stilemi tipici della disinformazione47. I fattori elencati in precedenza rendono l’attuale ecosistema mediatico affatto vulnerabile alla manipolazione da parte delle fonti di disinformazione, in particolare dai gruppi estremisti, il cui scopo è di acquisire una visibilità che altrimenti non potrebbero raggiungere autonomamente48.
La consapevolezza di questo circolo vizioso inizia ad essere evidente anche agli stessi organi d’informazione, ma spezzarlo risulta difficile per motivi culturali oltre che economici:
the challenges that journalists now face, they weren’t taught about this in journalism school. They weren’t taught about how do you cover disinformation because journalism is about covering the truth, it’s not about covering the falsehoods49.
Ciò che manca loro coincide esattamente con l’expertise dei bibliotecari e dei professionisti dell’informazione. Non è difficile immaginare scenari di collaborazione in cui questi ultimi mettono a loro disposizione le proprie competenze e risorse in una sorta di reference permanente e strutturato50.
Va inoltre sottolineato come, non essendo dipendenti da determinate logiche di mercato, contenuti rilevanti possono aver origine in situazioni avulse dai modelli di business basati sulla pubblicità51. In ogni caso, dovrebbe essere ormai chiaro che orientarsi in questo ecosistema mediatico-informativo dionisiaco, confusivo ed entropico sia un’impresa non da poco, anche per chi è già in possesso delle competenze necessarie52.
Proviamo ad esaminare dei casi significativi, andando progressivamente dalla combinazione di disinformation e misinformation all’informazione corretta, e parallelamente dalla mediazione dall’alto a quella dal basso.
Il primo esempio vede combinate in maniera esiziale information e media logic. Fredrik Solvang, un noto giornalista norvegese, il 7 giugno 2020 pubblica un tweet in cui scrive una frase traducibile come «Non leggere questo se vuoi dormire stanotte» e inserisce il collegamento ad un articolo sul sito del principale canale televisivo nazionale53. L’articolo contiene un’intervista a Birger Sørensen, co-autore di un paper scientifico pubblicato su QRB discovery, la sezione open access della rivista Quarterly review of biophysics, in cui vengono rilevati degli inserimenti nella proteina S del virus. Tali inserimenti lo differenziano dagli altri virus della stessa famiglia e possono avere delle implicazioni per ciò che riguarda lo sviluppo di un vaccino54. Nell’intervista al canale NRK, Sørensen aggiunge però che questi inserimenti sono artificiali, affermando come il virus sia stato creato in laboratorio da ricercatori americani e cinesi, con tutte le conseguenze geopolitiche del caso55. La notizia viene ripresa da Forbes56 e da lì diventa virale, venendo condivisa sui social – soprattutto da personaggi e gruppi noti per le loro attività di disinformazione e vicini a movimenti estremisti e antiscientifici – e raggiungendo così milioni di persone57.
La comunità scientifica internazionale risponde immediatamente alle affermazioni di Sørensen, negando il fatto che gli inserimenti rilevati abbiano un’origine artificiale solo in base alla loro presenza, in quanto caratteristica anche di altri virus: oltretutto, nella versione definitiva del paper, valutata positivamente dalla peer-review, la possibilità di tale origine non è neppure menzionata58. Immediatamente, sia NRK sia Forbes aggiornano le pagine dei loro siti con queste nuove informazioni, ma il numero di persone raggiunte è decisamente inferiore rispetto alle precedenti versioni, con tutto ciò che questo implica.
Nel caso successivo, l’informazione mediata dal basso inizia ad essere una risposta a quella che proviene dall’alto. L’occasione è offerta dalle dichiarazioni di Luc Montagnier sempre sulla presunta natura artificiale del Coronavirus59. Essendo stato quest’ultimo premio Nobel per la medicina nel 2008, il principio d’autorità ha fatto sì che le sue parole avessero una cassa di risonanza decisamente maggiore rispetto allo studio norvegese. Tra le varie risposte che hanno smontato la tesi di Montagnier60 – andando inoltre a sottolineare meccanismi dell’editoria scientifica poco noti al grande pubblico, tra cui l’auto-archiviazione o le riviste predatorie –, colpisce la presenza di un post di Facebook ad opera di Alberto Beretta61. Beretta è un immunologo che ha lavorato all’Istituto Pasteur di Parigi negli stessi anni in cui il gruppo di ricerca guidato da Montagnier, nel medesimo luogo, conduceva le proprie ricerche che hanno portato all’isolamento del virus dell’HIV. Essendo un post destinato ai suoi contatti di Facebook, Beretta tralascia quasi del tutto la parte scientifica e si concentra sui meccanismi sociali, psicologici e culturali della ricerca. In particolare, ricorda che i risultati per cui Montagnier è diventato famoso sono stati frutto di un lavoro di gruppo, in cui ogni membro ha contribuito con le proprie competenze specialistiche, ormai non più a disposizione del noto scienziato. Per Beretta è proprio la fama ottenuta da Montagnier in passato che lo porta a cercare continuamente visibilità, spesso con provocazioni e affermazioni che hanno ben poco di scientifico, come già successo più volte negli ultimi anni. Le argomentazioni e la tesi di questo post sono affatto plausibili e hanno fatto sì che venisse largamente diffuso. Ciò che ci interessa in questa sede è che il ragionamento di Beretta, sebbene si basi su delle conoscenze dirette, presenta molti dei tratti che caratterizzano le competenze trasversali e l’approccio di livello superiore dell’IL.
Una caratteristica di questa infodemia è l’avere come oggetto contenuti estremamente specialistici e comprensibili solo per una percentuale affatto ristretta della popolazione, anche considerando unicamente chi è già information literate. Per ovvi motivi, l’IL è incentrata sulla componente metodologica ed esula dal discorso disciplinare. Come scrive Lana, «trovare 12 articoli validi sul mesotelioma non rende competenti su questo argomento»62; epperò la metodologia dell’IL può permettere di capire le relazioni esistenti tra questi 12 articoli, il tipo di conversazione che attuano, permettendo così un minimo di orientamento. In questo modo, l’IL può diventare quel terreno comune necessario al lavoro di gruppo transdisciplinare.
Ciò si può riscontare in un caso esemplare di informazione mediata dal basso. L’articolo più letto in assoluto sul Coronavirus è stato pubblicato su Medium: l’autore è Tomás Pueyo, scrittore, ingegnere e imprenditore franco-spagnolo, e ha come titolo Coronavirus: why you must act now. Reso disponibile il 10 marzo, questo articolo conta ormai più di 40 milioni di visualizzazioni e innumerevoli condivisioni, soprattutto da parte di fonti ufficiali, insieme a numerosi endorsement da parte di medici, scienziati e intellettuali63. Basandosi su dati ed evidenze di cui viene costantemente citata l’origine, Pueyo elabora dei modelli di diffusione del virus, in base ai quali risulta evidente come sia necessario agire il prima possibile per evitare scenari catastrofici. L’inclusione e il collegamento a contenuti terzi – come tweet, articoli di cronaca e scientifici, grafici, dati e fogli di calcolo relativi ai modelli proposti – fa di Coronavirus: why you must act now un ‘articolo arricchito’.
A questo articolo ne seguono altri, incentrati su diversi aspetti, tra cui l’evoluzione e le possibili modalità di gestione della pandemia. A partire dal secondo – Coronavirus: the hammer and the dance, incentrato sulle diverse strategie di contenimento, e con 20 milioni di visualizzazioni – viene aggiunta in calce una nota in cui l’etichetta ‘information literacy’ sembra essere scritta a caratteri cubitali (corsivo mio):
This article has been the result of a herculean effort by a group of normal citizens working around the clock to find all the relevant research available to structure it into one piece, in case it can help others process all the information that is out there about the coronavirus64.
Sebbene presenti evidenti tratti di unicità, quello di Tomás Pueyo non è un caso isolato. Mutatis mutandis, un discorso analogo si può effettuare per dei contenuti resi disponibili sul canale YouTube 3Blue1Brown, incentrato sulla divulgazione matematica. In due video vengono illustrati modelli matematici sottostanti la diffusione del virus, spiegando ad esempio il passaggio dalla funzione esponenziale a quella logistica, o i vari modi in cui è possibile diminuire il fattore di trasmissione del virus, considerando aspetti come la presenza o meno di punti centrali di avvicinamento sociale65. Come nel caso precedente, i più di cinque milioni di visualizzazioni del primo video e i quasi quattro milioni del secondo – insieme alle migliaia di commenti, tutti pressoché positivi – mostrano che la viralità non è certo esclusiva delle fake news, bensì privilegio anche dell’informazione veridica, data la giusta combinazione tra contenuto ed espressione66. In questo modo è possibile dare vita ad un circolo virtuoso di circolazione e condivisione, grazie anche alla disponibilità del codice e dei dati sottostanti.
I vari esempi riportati dimostrano che nel panorama attuale i vari princìpi di classificazione dell’informazione finiscono inevitabilmente per combinarsi, generando così uno scenario complesso. D’altro canto l’IL può essere considerata come uno dei molteplici aspetti in cui si declina il tema della complessità. Tutto ciò non è certo avvenuto improvvisamente, e la diffusione delle reti telematiche o delle piattaforme social ha solo accelerato dei processi già in atto.
Questo è ciò che scriveva Umberto Eco negli anni Sessanta – nella prefazione ad Apocalittici e integrati – in relazione all’ormai irreversibile intreccio tra i diversi livelli culturali e sulla fondamentale rilevanza dello sguardo critico del fruitore rispetto ai vari contenuti:
Allora è chiaro che l’atteggiamento dell’uomo di cultura, di fronte a questa situazione, deve essere lo stesso di chi di fronte al sistema di condizionamenti “era del macchinismo industriale” non si è posto il problema di come tornare alla natura, e cioè prima dell’industria, ma […] come invece occorresse elaborare una nuova immagine di uomo in rapporto al sistema di condizionamenti; un uomo non deliberato dalla macchina ma libero in rapporto alla macchina67.
Tralasciando il fatto che «uomo di cultura» corrisponde a information literate, sostituendo «informazione» a «macchina» nell’ultimo periodo si ottiene una conferma e al tempo stesso una sintesi delle argomentazioni fino a qui proposte.
Il Manifesto per l’information literacy dell’AIB68 racchiude – e non potrebbe essere altrimenti – molte delle idee espresse nei paragrafi precedenti. Nello specifico, vengono sottolineati la rilevanza delle biblioteche e il ruolo sociale dell’IL, insieme alla necessità di considerare quest’ultimo (e quindi anche le prime) parte di una realtà sistemica. Da questa riflessione ne derivano diverse altre: il dover interagire con i numerosi attori del variegato panorama dell’informazione e della formazione; la consapevolezza dell’operare in uno scenario complesso; la necessità che il manifesto sia un «documento aperto e non prescrittivo». Se applicati ai casi analizzati, anche dei temi proposti ben pochi rimangono esclusi: dall’utilizzo consapevole dei motori di ricerca o di Wikipedia alla valutazione critica dell’informazione; dall’esprimersi correttamente in rete al saper distinguere tra i vari attori dell’ecosistema informativo. Data la natura di questa infodemia, anche i temi più specializzati – legati alla ricerca e destinati a particolari fasce di utenti – sono in qualche modo coinvolti, seppure ad un livello introduttivo, ad esempio tutto ciò che è legato all’editoria scientifica, dalle banche dati specialistiche ai repository disciplinari dell’open access, insieme agli strumenti per la gestione del sovraccarico informativo. Per motivi più che ovvi, il Manifesto è l’argomento di uno dei capitoli centrali – sia per posizione sia per rilevanza – del libro di Lana. Possiamo così passare a quest’altro argomento, in evidente rapporto dialogico con ciò che è stato scritto sino ad ora.
Il paratesto di Introduzione all’information literacy è costituito dalla già citata prefazione di Maurizio Vivarelli e da un’introduzione dello stesso autore. Nella prefazione, Vivarelli mette in atto quella stessa «complessità reticolare delle dinamiche all’interno delle quali l’IL si situa, e con i quali il libro di Lana si confronta»69. Con il taglio scientifico cui da tempo ci ha abituati, Vivarelli in poche pagine riesce a descrivere l’essenza del volume e al tempo stesso a tessere una fitta rete di relazioni, in grado di contestualizzare quest’opera a diversi livelli, partendo da quello biblioteconomico. Vengono analizzate diverse definizioni di IL – in particolare quelle del già citato Manifesto e del documento UNESCO/IFLA del 2001 che la lega alla media literacy – per risalire al suo punto fisso, il rapporto di Paul Zurkowski del 197470 e il successivo collegamento con la digital literacy. In questo modo viene introdotto uno dei temi fondamentali del libro, ossia il rapporto tra l’IL e le altre literacy metodologiche, come le due appena citate. Una prima classificazione potrebbe far corrispondere l’IL al contenuto, la media literacy all’espressione e la digital literacy al processo e al contesto dell’evoluzione tecnologica. Ciò non è del tutto errato, vanno però considerati ulteriori aspetti, tra cui i rapporti con altre literacy. Successivamente Vivarelli esamina separatamente i termini di information e literacy, partendo dalla tradizione delle culture documentarie per arrivare a quelle digitali, attuando così una sintesi del tema centrale del libro: «la capacità di prendere in esame con profitto le diverse tipologie di informazioni documentarie digitali che popolano la Rete»71.
L’introduzione di Lana parte anch’essa da Zurkowski – e in particolare dalla sua celebre frase in cui descrive la sempre crescente importanza degli equivalenti informativi della realtà fisica e ciò che questo comporta72 – per passare alla diffusione su larga scala dei documenti digitali ipertestuali che ha avuto luogo a partire dalla metà degli anni Novanta e arrivare al fenomeno delle fake news in relazione al referendum sulla Brexit e alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. Viene così sottolineata l’importanza dell’IL nel panorama attuale e le diverse definizioni che ne sono state date nel corso degli anni: ciò dimostra come la riflessione – sulle modalità più che sui princìpi – sia (e sarà) ancora in corso e debba confrontarsi con una situazione affatto diversa da quella di metà degli anni Settanta. In particolare il contesto di applicazione non è più solamente quello accademico o lavorativo, ma si estende alla totalità della sfera privata e pubblica. Quest’ultimo aspetto era stato in qualche modo intuito da Zurkowski, che però non ne poteva comprendere tutte le implicazioni, non potendo oltretutto immaginare la diffusione e lo sviluppo che avrebbero avuto le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Questa molteplicità di scenari porta con sé una pluralità di punti di vista, fabbisogni e competenze che sono ormai racchiuse sotto l’etichetta ‘information literacy’. Il rischio è che a fronte dell’effettiva necessità di un’IL diffusa, collettiva e multilivello, questa etichetta si svuoti dei significati profondi che porta con sé e diventi un trend, utilizzato per pubblicizzare le mode tecnologiche del momento. Invece, ciò che va attuata è una sorta di «alfabetizzazione 2.0»73, che per importanza e criticità poco ha da invidiare a quell’alfabetizzazione di base che ha avuto luogo nel secolo scorso. Se però i risultati di quest’ultima sono facilmente verificabili, altrettanto non si può dire per le abilità riconducibili all’educazione informativa, e ciò dà un’idea della maggiore complessità di tale compito.
Se nella prefazione e nell’introduzione le parole di Zurkowski servivano principalmente a supportare altre affermazioni, a partire dal primo capitolo diventano il punto di partenza di una riflessione strutturata. Ciò non è affatto raro nelle pubblicazioni sull’IL74, ma Lana le contestualizza culturalmente, descrivendo lo scenario che ha portato alla redazione dell’ormai seminale rapporto The information service environment relationships and priorities, in cui Zurkowski affermava la stringente necessità di un piano nazionale di IL per portare entro i successivi dieci anni, nel 1984, la totalità della popolazione statunitense ad essere information literate. La motivazione principale era la sempre crescente molteplicità di fonti informative e peculiarità delle modalità di ricerca di ognuna di esse, e il fatto che solo un sesto degli americani fosse in grado di utilizzarle proficuamente. Similmente a Vivarelli, Lana analizza separatamente i termini information e literacy, iniziando però da quest’ultimo e mettendoli in relazione alle idee di Zurkowski. Se una traduzione basilare di literacy può essere alfabetizzazione, le implicazioni nel contesto dell’IL sono tali da rendere preferibile l’utilizzo di ‘competenza’. Seppure lo stesso Lana sottolinei come l’aggettivo ‘informativo’ non sia del tutto soddisfacente, chi scrive trova efficace l’espressione ‘educazione informativa’, soprattutto perché richiama altri progetti simili, come l’educazione alimentare, quella ambientale, finanziaria, sanitaria e così via. Se l’esame del termine literacy è tutt’altro che banale, con information la situazione si complica di diversi ordini di magnitudine. Lana, però, in poche pagine riesce a riassumere aspetti fondamentali di questo concetto, richiamando studiosi come Shannon e Floridi. In particolare viene ricordata la distinzione tra l’aspetto sintattico e quello semantico, in quanto la teoria matematica della comunicazione di Shannon riguarda esclusivamente il primo75. Altri punti rilevanti sono la piramide data-information-knowledge (DIK) e la tripartizione dell’informazione secondo Buckland, da considerare di volta in volta come entità fisica, processo e conoscenza76. È inevitabile come la complessità dei termini di partenza si riversi anche nel loro uso congiunto. Non a caso, sulla base di quanto scritto in precedenza, nelle ultime pagine del capitolo Lana riprende il significato dato da Zurkowski all’espressione ‘information literacy’ nella sua relazione. Nello specifico viene sottolineata la dimensione imprenditoriale in cui si muoveva quest’ultimo, e il fatto che le sue dichiarazioni avessero altresì lo scopo di far sviluppare il mercato dell’informazione. Piuttosto che nella dimensione aziendale però, l’IL ha trovato terreno fertile nelle biblioteche e nell’istruzione superiore, per diventare solo ora un fenomeno globale77.
Nel secondo capitolo si può facilmente evincere il retroterra linguistico-filologico di Lana, in quanto contiene un’accurata analisi, comparazione e ricostruzione delle diverse definizioni di IL nei vari contesti, basandosi principalmente sulla documentazione ufficiale. Questa molteplicità è dovuta al fatto che il significato di IL – alla stregua di quello di informazione – è «storicamente e culturalmente determinato, dipende dai tempi e dalle culture»78, e perciò non è possibile prescindere da un confronto tra le varie enunciazioni che ne sono state date. Le prime ad essere prese in considerazione sono quelle sviluppatesi negli Stati Uniti e nel Regno Unito e supportate dalle varie organizzazioni bibliotecarie, come ALA, ACRL, CILIP e SCONUL. In particolare viene effettuata una mappatura tra i «5 passi» definiti dall’ALA/ACRL e i «7 pilastri» dello SCONUL79. Un altro punto rilevante è la costante presenza delle altre literacy nella definizione di IL. Questo aspetto è già stato affrontato e si ripresenterà in seguito. Da un lato la sinergia tra le varie literacy è necessaria, oltre che inevitabile. Dall’altro però va evitato un coacervo confusivo in cui non viene distinta la specificità e il ruolo di ognuna di esse. Ciò è avvenuto inizialmente con la computer literacy negli anni Ottanta e successivamente, a partire dagli anni Duemila, con le già citate digital e media literacy. Lana individua, analizza e confronta le diverse descrizioni, effettuando di volta in volta i necessari distinguo. Ciò avviene altresì per le organizzazioni internazionali come l’UNESCO – per cui si parla, come scritto in precedenza, di media and information literacy –, l’IFLA e l’Unione europea, che si trovano anch’esse a dover affrontare il tema dell’IL. Nel farlo si basano sulle già citate esperienze pregresse, ma devono tenere conto di una dimensione al tempo stesso globale e multiculturale. Oltre al tema della democrazia, compare quello del lifelong learning, che non va inteso solo in senso produttivo, ma come realizzazione delle proprie potenzialità lungo tutto l’arco della vita. Nel caso dell’Unione europea, Lana effettua un’analisi delle occorrenze di ‘information literacy’ nei documenti ufficiali disponibili e delle relative traduzioni in italiano, sottolineando le numerose inconsistenze e imprecisioni presenti, come l’identificazione dell’IL con l’utilizzo delle tecniche di data mining80.
La complessità dell’argomento si scontra con la necessità di doverne dare definizioni sintetiche; ciò si aggrava quando dai documenti scritti dai professionisti della formazione e dell’informazione si passa a quelli realizzati da politici e burocrati. Il rischio è che, di fronte ad un bisogno più che concreto di educazione informativa, si finisca «col trasmettere una percezione dell’information literacy come flatus vocis, claim pubblicitario che domani sarà scaduto, o un contenitore che ognuno può riempire come crede»81. Per ovviare a questo rischio tangibile è necessario effettuare una riflessione continua su cosa sia, come si evolva, a cosa serva e come vada declinata l’IL.
Non è difficile immaginare come questo sia l’argomento del capitolo successivo. Il punto di partenza è la collocazione centrale dell’IL nell’ambito LIS, in quanto fattore cruciale nella ridefinizione delle biblioteche nel mondo dell’informazione. Per questo motivo non va ridotta a delle tecniche o financo ad una metodologia da applicare meccanicamente, bensì è necessario «concepirla e studiarla invece come un prodotto culturale»82. Un punto importante evidenziato da Lana è che l’IL consiste in dei princìpi astratti declinati di volta in volta in scenari affatto eterogenei, sia a livello diacronico sia sincronico: per questo motivo «la sua forma presente non è necessaria ma contingente»83. Questo punto va mantenuto ben saldo per evitare l’appiattimento dell’IL su attività come l’information seeking o ridurla alla computer o alla digital literacy. In particolare, riguardo a quest’ultimo aspetto Lana riprende gli studi di fine anni Ottanta di Carol Kuhlthau; questa studiosa aveva già intuito che la diffusione dell’informatica avrebbe portato la ricerca d’informazioni al di fuori del contesto delle biblioteche, ambienti ordinati in cui vige il principio classificatorio, e ciò avrebbe al tempo stesso modificato e reso più rilevante l’IL. Un’altra intuizione non da poco della Kuhlthau riguarda il ruolo strumentale del computer in questa esplosione informativa, e la conseguente necessità di distinguere l’IL dalla computer literacy. Oltretutto, in quegli anni, a causa del basso livello di usabilità delle interfacce, quest’ultima includeva anche i rudimenti della programmazione, ed era perciò molto distante dagli aspetti cognitivi e sociali della circolazione dell’informazione.
La computer literacy si ripresenta nell’affrontare il discorso della formazione permanente. Nei contesti aziendali viene data importanza alla continua acquisizione di competenze informatiche, mentre viene del tutto trascurata l’IL. Le peculiarità dei bisogni informativi nei luoghi di lavoro sono state già menzionate in un paragrafo precedente, ma può essere utile sottolinearne due aspetti ulteriori. Il primo è che l’acquisizione dell’informazione necessaria, nei contesti di studio e di ricerca, il più delle volte è il fine stesso. In quelli di lavoro al contrario è un mezzo, un passo intermedio in cui il risultato informativo ottenuto andrà applicato concretamente, e ciò implica questioni di tutt’altro genere. Il secondo, evidenziato anche da Lana, è la vasta quantità di dati non strutturati con cui si ha a che fare in ambito professionale. Ciò spiega la rilevanza che viene attualmente data alle tecniche di text e data mining, causa di ulteriore confusione tra l’IL e la digital literacy o l’information and communications technology (ICT); va però ricordato come anche queste siano un mezzo, e non un fine. Le evidenti differenze tra il mondo della ricerca e quello del lavoro – unito al fatto che entrambi necessitino dell’IL – sono un’ulteriore prova «della complessificazione del tema»84. Queste due diverse declinazioni di uno stesso concetto rimarcano che
l’information literacy è parte di ogni attività umana non nel senso che tutti la pratichino al massimo livello ma nel senso che tutti inevitabilmente, a maggior ragione nella società dell’informazione, fanno i conti con essa, ne siano o no consapevoli85.
Anche in questo caso, l’infodemia ha accelerato e reso più visibile un fenomeno che era già in corso. Infine, in questo capitolo, Lana riprende un interessante saggio di metà anni Novanta di Geoffrey Nunberg che descrive profeticamente la situazione attuale86, per concludere con un paragrafo sull’aspetto terminologico di ‘information literacy’.
La visione sistemica dell’IL trova il suo pieno compimento nel quarto capitolo, centrale, come scritto in precedenza, sia per la posizione sia per la rilevanza. Data l’elevata densità concettuale, è pressoché impossibile riassumerlo in poche parole ed è più proficuo concentrasi su di un aspetto in particolare. Il centro dei ragionamenti di Lana è una disamina del già citato Manifesto per l’information literacy dell’AIB, di cui vengono presi in considerazione il contesto storico da cui ha avuto origine e le implicazioni delle affermazioni contenute in esso. Data la loro importanza, molti di questi temi sono già stati affrontati in questo articolo, in particolare la necessità di adattare l’IL a contesti eterogenei e il relativo ruolo delle biblioteche in questa evoluzione.
Un punto focale, anch’esso già accennato, è il rapporto dell’IL con le altre literacy, ed in particolare digital literacy, media literacy, transliteracy, metaliteracy e functional literacy. Qua Lana descrive con efficacia quella che in un’altra sede ha definito come «la danza delle literacy»87. Il risultato è una pila in cui alla base di tutto c’è l’alfabetizzazione di base, su cui poggia la functional literacy, ossia l’effettiva capacità di comprendere e utilizzare il codice testuale. Successivamente troviamo la digital literacy, la competenza nell’uso degli strumenti digitali, di cui fanno parte anche le tecnologie dell’ICT. All’ultimo livello troviamo l’IL, che però va intesa anche come metaliteracy, ossia un «quadro di riferimento che integra le tecnologie emergenti e unifica i differenti tipi di literacy»88. Trasversale a tutti i livelli della pila è la transliteracy, il sapersi muovere con agilità tra le varie literacy, mentre cultural e media literacy attraversano longitudinalmente rispettivamente solo i primi tre e gli ultimi tre livelli89.
Naturalmente, come tutti i modelli, anche questo è al tempo stesso wrong and useful, essendo frutto di un processo interpretativo e la base per riflessioni ulteriori. Una prima cosa che va notata è la sua bidimensionalità. Da un lato ciò va a favore dell’immediatezza, dall’altro rischia di porre in secondo piano aspetti rilevanti. Lo stesso Lana ha più volte sottolineato che la complessità del tema dell’IL è collegata alla sua multidimensionalità; è evidente come tutte le literacy si compenetrino tra di esse, soprattutto nel momento in cui ci si interroga criticamente sulla loro natura. Ad esempio, per migliorare o aggiornare la digital literacy avrò bisogno di competenze di IL, seppure minime e intuitive. Parimenti, per approfondire quest’ultima nello scenario attuale sarò facilitato dalla prima.
In questa sede si vogliono proporre, come spunti di riflessione, delle possibili modifiche al modello appena illustrato. Il livello della digital literacy si potrebbe dividere a metà, inserendo così la computational literacy, relativa al paradigma computazionale, che è indipendente dalla dimensione tecnologica. In questo modo verrebbero prese in considerazione tutte quelle abilità collegate al computational thinking, definito anch’esso come una competenza fondamentale per il XXI secolo. Similmente, per le ragioni espresse nel paragrafo precedente, si potrebbe fare la stessa cosa con il livello dell’IL, affiancandola così alla media literacy. Così facendo, tutte le parti relative al quadro teorico di riferimento andrebbero spostate ad un piano ulteriore, che sarebbe esclusivo della metaliteracy. Cultural literacy e transliteracy attraverserebbero a chiasmo tutti gli altri livelli; oltretutto in questo modo potrebbero essere interpretate come la declinazione speculativa e fattiva di uno stesso concetto comune.
Il quinto capitolo del volume è quello più corposo, e perciò altrettanto difficile da riassumere. Dopo aver delineato nei capitoli precedenti un impianto teorico per l’IL, Lana lo mette alla prova nella pratica, passando in rassegna le varie fonti che costituiscono l’ecosistema informativo, aumentando progressivamente il livello di specializzazione. Si va dagli ambienti social, caratterizzati dall’informazione push, composta da news e notifiche, ai motori di ricerca generici, le enciclopedie, le risorse multidisciplinari, i motori di ricerca e le risorse specializzate, fino ad arrivare alle riviste scientifiche. Per ognuna di esse vengono delineate le caratteristiche principali e, soprattutto per quelle più generiche, suggerite strategie per un utilizzo responsabile ed etico dell’informazione presente. Per le news e le notifiche vengono analizzate e confrontate le diverse metodologie per controllare la veridicità di una notizia, mentre per i motori di ricerca quelle funzionalità che permettono di effettuare query più rigorose, tra cui l’utilizzo delle stringhe o le impostazioni per limitare i risultati ad uno specifico intervallo temporale o ad un insieme di siti. Lana dedica ampio spazio a Zotero, un noto reference management software libero ed open source, disponibile come plug-in per i principali browser. Zotero è stato sviluppato all’interno della comunità delle digital humanities, ed è stato utilizzato da Lana per la redazione del volume. La descrizione delle sue numerose funzionalità – tra cui la possibilità di recuperare i metadati degli articoli scientifici dalle pagine web, effettuare ricerche su differenti basi di dati, importare ed esportare da diversi formati, collegare il record bibliografico al documento pdf, creare bibliografie condivise – rientra in quegli aspetti riflessivi di IL citati all’inizio di questo articolo. L’ultimo paragrafo del capitolo si concentra sulle modalità di comunicazione in rete: scopo dell’IL è anche quello di responsabilizzare il singolo in quanto produttore e non solo fruitore di contenuti: ha perciò il dovere di contribuire all’ecologia degli ambienti informativi. Per questo motivo viene richiamato anche Il manifesto della comunicazione non ostile, e le sue relative declinazioni, elaborato all’interno dell’Associazione Parole o_stili90.
Il sesto e ultimo capitolo intende offrire, sin dal titolo, una prospettiva critica con ulteriori spunti di riflessione. Lana riprende la concezione di Cees Hamelink di IL, di poco successiva ma differente da quella di Zurkowski e che ha conosciuto una minore diffusione. Il focus di Hamelink è sui mezzi d’informazione, in particolare sulla necessità di avere dei cittadini consapevoli della non neutralità dei media e in grado di contestualizzare ciò che viene loro comunicato, partendo da una comparazione delle fonti; tale abilità è quanto mai necessaria al giorno d’oggi, in cui la frammentazione sembra essere la norma più che l’eccezione91. Hamelink sottolinea l’importanza dei centri di comunità, in grado di fornire delle risorse informative e con cui le persone possano interagire. Inutile dire come questo ruolo si attagli perfettamente alle biblioteche, in particolare quelle pubbliche.
Le idee di Hamelink permettono di elucidare un aspetto già menzionato, ossia il voler mettere allo stesso livello information literacy e media literacy nella pila descritta in precedenza. Lana è categorico nel dare maggiore rilevanza alla prima: «tra un contenuto e una varietà di mezzi che lo veicolano e variano nel tempo la priorità logica è al contenuto»92. Non si può non essere d’accordo con questa affermazione ma, come già scritto, la compenetrazione tra la componente mediatica e quella informativa è ormai talmente profonda da rendere necessaria una competenza in entrambi i campi, anche solo per poter dare priorità al contenuto. Ciò sembra trovare una conferma nelle stesse parole di Lana, quando nelle pagine seguenti fa riferimento al concetto di 'information as thing' di Buckland, e al fatto che qualsiasi oggetto possa veicolare informazione. Fermo restando che «prima viene l’information literacy»93, Lana subito dopo scrive:
La forza della connessione tra l’“informazione” e le “cose” che la contengono sottolinea la necessità di possedere strumenti materiali e tecnici per analizzare e conoscere le cose, senza i quali il contenuto informativo rimane seppellito nelle cose stesse94.
Certo, si sta parlando della materialità dei supporti, ma non si vede il motivo per cui questo stesso ragionamento non si possa applicare anche ad un livello superiore. Inoltre – senza considerare che nelle discipline bibliografiche è ben noto il confine labile tra espressione e contenuto – lo stesso Lana successivamente sottolinea l’importanza di un’educazione alle emozioni nel contrastare il fenomeno delle fake news, e ciò è molto più affine alla media literacy. Infine, il capitolo si chiude con una riflessione sui diritti (e doveri) aletici.
Le conclusioni di Introduzione all’information literacy riassumono le idee sottostanti al volume, in particolare quella di voler essere un percorso, in un territorio per la maggior parte inesplorato e in via di definizione, viene da aggiungere. Alla fine di questo percorso, vengono individuati dei fili rossi che collegano temi apparentemente distanti. Il primo, come si può immaginare, è l’importanza dell’IL in quanto condizione necessaria per la democrazia. A ciò consegue il bisogno di una formazione globale – seppure a diversi livelli di specializzazione – in cui è fisiologico che le biblioteche abbiano un ruolo, che comporta però dei cambiamenti necessari, in particolare il dover abbandonare una posizione di neutralità, che di fatto le «separa dalle pulsazioni vitali della società e dei cittadini»95. L’ultimo filo riguarda la scuola, nonostante, per stessa ammissione dell’autore, non sia stato trattato a causa dell’ulteriore livello di complessità che avrebbe aggiunto: qualsiasi considerazione su di una formazione generale riguardo all’IL non può però prescindere dal contributo delle istituzioni educative.
In questa sede si è cercato di riprodurre, per quanto possibile, questo approccio di esplorazione e di tracciamento di fili rossi tra argomenti diversi: quello principale lega il volume di Lana all’infodemia attualmente in corso, a dimostrazione di come Introduzione all’information literacy sia un testo necessario e rilevante, frutto di un lavoro serio e rigoroso; delle numerose considerazioni che possono scaturire da questo collegamento, non va dimenticata quella più importante: un invito all’azione, a causa della serietà della posta in gioco.